L’isola spezzata
Un racconto dal futuro che bisogna impedire che arrivi
[3 Marzo 2022]
La domenica, se le campane del campanile di Santa Chiara rintoccano a festa, scendiamo a valle con Bill, il nostro asino grigio con la striscia marrone sulla schiena, una croce che vibra quando scaccia le mosche. Se le campane rintoccano a festa vuol dire che nel mare, nel labirinto di case sommerse di quello che fu il paese di Marina, non ci sono pericoli, non ci sono ladri di mare o pescecani con la pancia bianca, non ci sono sciami di cubomeduse. Scendiamo a valle perché dobbiamo pescare conchiglie, granchi e, a volte, quando abbiamo fortuna, un’aragosta che sporge le sue antenne sensibili da qualche muro di una vecchia casa o da un muretto di vigne diventate fondo del mare, o una granceola che ha risalito una scarpata profonda con le sue lunghe zampe pelose e le chele protese per venire a spargere le sue uova di corallo dove prima vivevano i nostri nonni.
Il mi’ nonno è l’ultimo sui Poggi ad aver visto la neve: ci racconta ancora di quando aveva la nostra età e, dopo un autunno di grandi uragani, la cima triangolare del monte che è ancora la nostra isola frantumatasi in un piccolo arcipelago si infarinò dell’ultima spruzzata di neve bianca e che i fiocchi di neve che mulinavano per le strade avevano sulla lingua protesa un bellissimo sapore di niente. A noi sembra incredibile, ma per lui è lì, quel giorno, con quell’ultime effimera e illusoria nevicata, che è finito il mondo e ne è cominciato un altro, prima bruciato dal caldo e poi sommerso dal mare e dalla disperazione.
Noi siamo i pochi figli di quell’umanità superstite e disperata che ha deciso di non fare più figli, di deserti invasi nuovamente dal mare salato che si erano scordati da mille e mille anni, delle crudeli guerre per poche gocce d’acqua, dei profughi che cercavano terra in un mondo che si restringeva, stretto dal mare e dai nuovi deserti o che annegava in piogge interminabili e sprofondava nel permafrost scongelato.
Siamo i figli della crudeltà e della rivoluzione che, almeno qui, nel posto che ancora chiamiamo Italia, ha portato la pacificazione in un Paese fatto ormai solo di montagne sorgenti dal mare, di isole spezzate, di città e paesi sommersi in un mare caldo, senza stagioni.
Siamo i figli della temperanza tardiva e del rimorso senza fine, siamo gli ultimi figli dello sbaglio e dell’ingordigia, della guerra contro un Pianeta che abbiamo insanguinato con il sangue dei profughi climatici, con il sangue dei nostri nonni versato per difendere un bosco o una sorgente dai pirati marini che ancora chiamiamo Saraceni.
Non è che queste cose me le invento, l’ho lette sui libri crepitanti di sale e di anni della vecchia biblioteca dei Poggi, dove, nell’Atlante Geografico con la copertina scortecciata, ci sono ancora le pianure verdi e l’isola è ancora tutta attaccata. Me le racconta il mi’ nonno quando non parla di neve o del porto dove lavorava, ora scomparso sotto le onde, delle turiste bianche come il latte che venivano a scurirsi la pelle sulla spiaggia di sassi dove ora prendiamo i granchi con tuffi e risalite senza fiato.
Nonno è un po’ rincoglionito, beve volentieri e troppo spesso distillati profumati e, con la scusa delle ossa doloranti, si fa di hashish in maniera smodata, probabilmente quello che racconta non è tutto vero. Ma quando lui dice che se loro non fossero stati così stupidi il mondo sarebbe stato più grande e più bello. Io ci credo. E molte cose che dice ricordandosi il suo piccolo mondo che era più grande del mio, noi le leggiamo sui nostri libri di storia digitali che raccontano la caduta del mondo.
Ci spogliamo del poco che abbiamo addosso e, dalle prime case abbandonate con i muri già nel mare, le cui finestre cieche fanno da difesa della stretta valle che porta al monte, seguendo le antiche strade di granito ormai di ricoperte da un tappeto di alghe verdi e brune, nuotiamo in mezzo al paese annegato, maltrattato dalle mareggiate che hanno scoperchiato i tetti e smerigliato i muri, nuotiamo noi e i pesci e catene luccicanti di salpe portate dalle correnti che si intrufolano nei canyon di case dove mi sembra ancora che riecheggino le voci di donne, uomini e bimbi che il mi’ nonno ha conosciuto.
A volte, come premurosi guardiani di un museo sottomarino, spazzoliamo da una patina di piccole alghe verdastre, le targhe di maiolica delle strade con scritte in blu i nomi di eroi sconosciuti: Giuseppe Garibaldi, Cavour, Mazzini, Matteotti… e, anche la scritta sbeccata della strada più lunga di tutte, quella che portava al porto, la prima mangiata dal mare, viale Regina Margherita. Nessuno su al paese si ricorda chi fosse Margherita e noi ci immaginiamo fosse la regina del mondo prima del grande cambiamento, la sovrana di una Terra ancora felice che non ricordiamo. L’ultima regina prima del collasso e della rivoluzione, una regina bianca come le margherite e la spuma del mare delle onde che ancora rotolavano su quella strada ora sommersa e sugli scogli oggi diventate secche di pescatori.
Quando arriviamo al campanile le guardie della guarnigione ci salutano dall’alto, accanto alle campane che fanno rintoccare a morto quando si avvicina un pericolo. Sotto di loro la chiesa scoperchiata e trasformata in un vivaio dove mettere le riserve ittiche per i tempi di scarsità, quando il mare si arrabbia o qualcuno tenta di fare scorrerie alla conquista delle povere e preziose cose che ci sono rimaste.
Quando la guarnigione si distrae o fa finta di non vedere, ci intrufoliamo come foche monache nella vecchia chiesa. Nonno dice che prima, sull’altare c’era il crocifisso che ora è in salvo su ai Poggi, per il resto è tutto uguale e tra le ombre verdi, azzurre e nere del mare i pesci omaggiano ancora la Santa patrona e si nascondono tra gli altari, le canne dell’organo e il pulpito.
Noi in famiglia non siamo credenti: la fede di molti è stata bruciata dal fuoco che infiamma l’aria in un’eterna estate, ma qualcuno dei miei compagni crede ancora alle vecchie religioni e a volte si fermano, sospesi nell’acqua come smilzi cherubini marini, a farsi il segno della croce davanti a statue di santi o al quadro dimenticato e malconcio di un Gesù biondo, ma con un cuore sfolgorante fuori dal petto che brilla ancora nella penombra come un rubino adorato dai pesci.
Edo, un mio amico riccio e colorato come il croccante di caramello e mandorle che mi fa la mi’ mamma per la festa, dice che tutto torna, perché il primo simbolo dei cristiani era un pesce e che Gesù era un pescatore che camminava sulle acque, ma non è che ci crediamo molto a quel che dice Edo. Ma, se non è vero, è una bella fiaba, come quelle che ci racconta nonno sulla neve e sull’uva e sul vino.
Torniamo a nuotare per le strade marine, dove un tempo circolavano le macchine che hanno avvelenato il mondo. Per scrostare le grandi patelle reali, le orecchie di Venere, dai muri, ci aggrappiamo a cavi dove prima passava l’elettricità che ora sui Poggi produciamo con la grande pala eolica che sovrasta come una croce la cima puntuta del monte dove – dice nonno – prima c’erano le antenne delle televisioni. Ai paesi abbiamo pannelli solari organici su ogni tetto e stalla di asini, capre e maiali e sulla chiesa e la moschea.
Penetriamo come ladri sottomarini nelle finestre di uomini e donne che non ci sono più, dove la loro vita è stata ammucchiata e marcita dal mare, vediamo cose che non conosciamo, incomprensibili a noi ma che vivono ancora nei ricordi dei nostri genitori. Vediamo pezzi di mobili galleggiare attaccati al soffitto. Apriamo cassetti dai quali escono come murene vestiti fluttuanti che prendiamo per riciclarli e recuperare i bottoni. Tutto è cambiato e, in quelle scatole marine di vita dove nuotiamo alla ricerca di cibo, c’è ancora il mondo passato che piano piano il mare e il tempo, seduti alla stessa tavola, mangiano e digeriscono. Fra poco saremo in pochi, fra poco avremo dimenticato.
E’, come dice il sindaco dei Poggi, la punizione per la nostra arroganza, per non aver capito che la guerra contro la natura era la guerra a noi stessi.
Io non capisco tutto quello che dice il Sindaco alle assemblee popolari o quando la maestra lo invita a scuola per le lezioni di economia ecologica, ma quello che scopriamo a volte nelle nostre cacce ai tesori nelle case dimostra che ha ragione: che se ne facevano di tutte quelle cose che ora non sappiamo nemmeno più a cosa servivano?
Il nostro problema, il problema dell’isola spezzata, è l’acqua. Siamo annegati nell’acqua salata, a volte siamo sferzati da tempeste violente e veloci che scoperchiano le stalle e annegano galline e orti, ma non abbiamo abbastanza acqua dolce. Fortunatamente, al tempo del nonno, in piena rivoluzione, prima che il mare spezzasse l’isola, hanno smontato il dissalatore che era stato costruito in una piccola pianura ora ricoperta dal mare e lo hanno rimontato più a monte. Poi il problema è diventato quello dell’energia per produrre l’acqua e dei pezzi di ricambio per far funzionare il dissalatore. Ma dopo la rivoluzione verde la sete e il cibo sono diventati programma prioritario di governo e la manutenzione dei dissalatori superstiti e il risparmio idrico un’emergenza nazionale. E’ lo Stato, lo Stato Cooperativo Ecologico della Repubblica Democratica Italiana, a fornirci pezzi di ricambio e a gestire l’energia e la sanità, tutto il resto lo fa il governo autonomo locale.
L’acqua la raccogliamo anche quando i monsoni autunnali investono il monte di granito dell’isola, la salviamo in depositi, contenitori, pozzi, bottiglie. La depuriamo con le piante in una valle dove coltivano la canapa e la marjuana e poi la riutilizziamo per le bestie e i campi che abbiamo strappato nuovamente ai fianchi della montagna, Non una goccia d’acqua vada sprecata è scritto ovunque e ci viene da ridere quando, nel paese annegato nell’acqua salata dove peschiamo, vediamo sui muri lo stesso slogan nelle disperate scritte pre-rivoluzionarie.
Una goccia nel mare dice a volte il mi’ nonno. Una goccia nel mare…
Come dice nonno, non siamo diventati selvaggi, selvaggi erano quelli di prima che hanno stravolto il mondo. quelli che credevano che si potesse crescere infinitamente mentre il mondo ribolliva di caldo, siccità, incendi giganteschi e mentre i poveri frantumavano frontiere oggi sconosciute e ormai segnate solo sul vecchio atlante con la copertina scortecciata.
Ma è stato il collasso delle calotte glaciali a travolgere tutto, a seppellire popoli e governi, un nuovo diluvio universale che ha annegato le isole del Pacifico, cancellato un Paese che si chiamava Bangladesh e la Pianura Padana, ha risalito fiumi facendoli diventare immensi laghi salati, ha sommerso metropoli, ha scatenato guerre interminabili e rivoluzioni. E un’umanità che credeva che non sarebbe mai successo ha avuto almeno la saggezza di eliminare le armi nucleari. Ma prima ci riuscissero, prima che ci pensassero, ci sono stati i tre olocausti nucleari di Corea, Pakistan e India e Palestina che hanno polverizzato popoli e avvelenato intere nazioni, il mare e la terra. E poi ci sono volute le rivoluzioni in quelli che una volta si chiamavano Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna. Solo allora gli uomini e le donne hanno capito che potevano uccidere il loro mondo moribondo. Questo lo studiamo a scuola, sulla lavagna digitale, ce lo insegna la maestra.
A volte, quando ci penso, mi dico che gli uomini prima di noi sono stati come i pesci che si accorgono troppo tardi che siamo noi, lì immobili attaccati alla soglia di una porta sommersa, quelli con in pugno la fiocina che è la loro fine. E gli uomini sono come i pesci, direbbero i pescatori Edo e Gesù.
Ora, in questo mare dove nuotiamo, i pesci sono diversi da quelli che conosceva mi’ nonno, crescono coralli mai visti, ci sono creature velenose e i serpenti marini ci sfiorano le gambe con le loro code piatte mentre raccogliamo grosse conchiglie appetitose.
E’ il nostro mondo, un mondo che ci piace.
Noi non abbiamo rimpianti, siamo ragazzi, i nostri ricordi sono quelli degli altri. Abbiamo il futuro davanti: il sangue del collasso si è rappreso, quello degli uomini e delle donne si è mischiato, la rabbia è diventata ricordo, i ricordi malinconia che svanisce: siamo nel mondo nuovo, saremo il nuovo mondo.
Fra poco saremo da soli. Toccherà a noi.
Per questo ci insegnano a non dimenticare perché è successo, come è successo. Per non ripeterlo. Come una poesia da imparare al contrario.
Il mi’ nonno dice che quello che chiamiamo ancora Tirreno è diventato un mare tropicale, è diventato il Mar Rosso, che i suoi pesci non ci sono più. il sindaco e la maestra dicono che il mondo sarà sempre più caldo e il mare salirà, fino a che l’anidride carbonica non smetterà di accumularsi nell’aria, io guardo gli occhi viola e la pelle bruna di Marianne e non so’ come dirle che sono pazzamente innamorato di lei, che nuota come una sirena e che non vorrei mai vivere in un posto dove lei non c’è, dove non c’è il suo sorriso bianco sopra e sotto il mare. Lei mi sorride mentre cerchiamo crostacei tra i sassi del fondo, mi fa le bolle e le facce, e io impazzisco d’amore. Gli altri ridacchiano, le altre bisbigliano.
Il mi’ nonno dice che è sempre stato così, anche prima del collasso e che forse a salvarci dal suicidio collettivo è stato l’amore. A fermarci è stato l’amore. Il ciclo della carne e del sangue che, alla fine per disperazione o per istinto di sopravvivenza, ci ha rimesso in sintonia con la natura.
E’ qualcosa che a volte sento anche sott’acqua o mentre di notte guardo le stelle, è qualcosa che mi fa risuonare e vibrare come la campana di Santa Chiara o come i richiami delle balene.
Sulla groppa della diga del vecchio porto sommerso c’è una tartaruga marina verde che bruca metodica le alghe come un capretto bruca l’erba di maggio. Le tartarughe non si toccano, sono tabù: il mare ha inghiottito tutte le spiagge dove nidificavano, probabilmente qualcuna riesce ancora a farlo nelle dune di qualche deserto che il mare non ha sommerso o alla base di qualche costone sabbioso lambito dal mare, dove più in alto fanno i loro nidi profondi anche i gruccioni, che ci rubano in volo le api dei nostri alveari.
A volte usciamo con gli adulti sulle barche elettriche, a pescare con lenze e reti. Ma le isole piane sommerse dal mare sono proibite alla pesca, la rivoluzione ha istituito grandi aree marine protette per salvare pesci e uomini. Da rapinatori siamo diventati gestori e custodi, ma i Saraceni fanno ancora incursioni che dobbiamo respingere. Sono popoli del mare che vivevano in un deserto che non c’è più, discendenti di chi l’oceano non lo aveva mai visto e praticato. Sono noi se fossimo stati loro.
Il sindaco dice che mano mano che il numero di esseri umani diminuirà grazie alle politiche demografiche e al naturale abbassamento del tasso di fecondità, le scarse risorse terrestri diventeranno di nuovo accessibili a tutti e che anche gli ultimi focolai di guerra e violenza si estingueranno. Ma quel che so io – e che mi dice anche il mi’ nonno – è che ancora sulle montagne d’Europa e dell’Asia e nel cuore dell’Africa gli uomini continuano a scannarsi per le risorse rare che ci servono anche se ormai ricicliamo tutto. L’uomo è una strana bestia che sa bene quel che dovrebbe fare ma che non lo fa: è per questo che siamo ridotti così, dice il mi’ nonno.
Quello che so’ è che lassù sulla stella rossa che vediamo la notte, su un pianeta lontano e non più raggiungibile ci sono un pugno di uomini e donne diventati marziani, che estraggono ossigeno dall’aria fine ed esausta e acqua da un mare di sabbie. A volte ci arrivano messaggi da Marte, sempre più lontani tra loro. Dopo le bombe nucleari che zittirono le comunicazioni del nostro mondo, credevano che qui sulla Terra fossimo tutti morti. Noi credevamo che loro, lassù, non fossero sopravvissuti a sé stessi. Forse un giorno ci dimenticheranno, forse un giorno li dimenticheremo. Forse un giorno ci ritroveremo. Forse un giorno ci incontreremo nuovamente a metà strada, magari sulla faccia butterata della luna che ieri se ne stava appesa in cielo, come un bottone rotondo e lucente che faceva capolino dall’asola nera della notte.
Io e Marianne e tutti i nostri compagni siamo figli di un calcolo: quanta umanità può sopportare questo mondo sfigurato dal clima e dal mare? Quanti dovranno essere i superstiti di un’umanità che ha oltrepassato il confine, che ha travolto tutti i confini del pianeta? Siamo figli centellinati della disperazione e di un istinto di sopravvivenza trasformato in speranza. Siamo quelli che governeranno il mondo senza più credere di esserne padroni. Non so come ci siamo arrivati davvero, non conosco per ora tutti i particolari, ma tutti noi speriamo che il futuro sarà cosi. In pace. Finalmente.
E’ quello che penso mentre seduti in cima a quel che resta della vecchia torre del porto guardiamo le balene passare al largo, placide ed eterne, con il loro soffio che diventa arcobaleno. E’ a questo che penso mentre sfioro, come per caso, con il dorso della mano la mano di Marianne che accanto a me ride mentre parla con Fatima. E’ a questo che penso mentre il sale mi si rapprende sulla pelle in strie bianche e mi imbiondisce i capelli. E’ a questo che penso intorpidito dalla fatica e della meraviglia per quello che è vivo e che vive insieme a me, per questo mondo ferito del quale noi vediamo ormai solo le cicatrici suturate di un futuro che nuota con le balene, come un grosso cucciolo.
Poi, uno ad uno, come fossimo pioggia, ci buttiamo tutti dalla torre in mare e nuotiamo verso il vecchio cimitero per fare un gioco che ci piace: chi legge più nomi e date sulle lapidi sommerse. E’ come immergersi in una storia che non conosciamo per pescare nomi e cognomi di persone che a volte si chiamavano come noi, o nomi e cognomi scomparsi come qualche pesce che da piccolo pescava il mi’ nonno.
E’ una storia lontanissima. Fotografie che ci guardano da tempi remoti da dietro la patina di un vetro antico, quando la Terra e il Mare erano diversi. Croci di giovani morti in guerra, vecchi e vecchie e a volte, come un nostro specchio, ragazzi e ragazze con i nostri stessi occhi e il sorriso triste di chi ha lasciato il mondo troppo presto. Ridiamo, scherziamo ma sappiamo che stiamo nuotando tra il nostro passato e il nostro destino, che siamo umanità di mare che guarda uomini di terra che quella terra dove sono sepolti hanno calpestato, coltivato, asfaltato e cementificato prima che diventasse fondo marino.
A volte, anche se nessuno di noi lo confessa, quei morti aprono le porte dei nostri sogni e ci vengono a parlare del passato, del rimpianto, del non fatto, della colpa. A volte ci chiedono scusa. A volte piangono lacrime salate come il sale del mare. A volte le donne nei sogni ci guardano solo con amorevole compassione, soprattutto le donne. A volte ci impigliamo nelle alghe dei morti. lunghe come nastri freddi. A volte ci parliamo, ascoltiamo preghiere dimenticate, segreti sussurrati che dimentichiamo appena svegli.
Nel cimitero non possiamo pescare, è proibito. Come se gli adulti pensassero che le murene, i polpi e i granchi, i paguri e la cernia che hanno fatto le loro tane nel giardino di posidonia verde e bianca che ondeggia tra quelle lapidi rovesciate e maltrattate dal mare e dal tempo fossero la reincarnazione di quei morti, di quei fantasmi gentili.
Ora è tempo di tornare, di spingere fino a riva la zattera sulla quale abbiamo ammassato le nostre prede. Sentiamo l’autista del mezzo collettivo elettrico che suona insistente il clacson per avvertirci che è venuto a prenderci. Ci aspetta sulla riva accanto a Bill. Carichiamo il somaro paziente con i sacchi di iuta pieni di prede gocciolanti. Gli altri salgono sul mezzo collettivo stanchi, eccitati e affamati, già pensando alla cena che li aspetta sui Poggi. Io prendo Bill per la cavezza di canapa e mi avvio lungo il sentiero che porta verso le colline e il paese, lo stesso sentiero che mille anni fa altri Saraceni risalirono per bruciare chiese e villaggi.
Sento una corsa di piedi scalzi e leggeri. Accanto a me c’è Marianne, come un’apparizione riccia di occhi viola e un sorriso bianco. Mi prende la mano. Ci voltiamo a guardare il mare che è già tinto dalle dita rosa del sole e del vento. Ci sarà un tramonto sfolgorante, rosso come il fuoco. Ci fermeremo a guardarlo dalla vecchia chiesa di granito diroccata. Forse stavolta la bacerò davvero.
Mi bacia prima lei.
di Umberto Mazzantini