L’inflazione della biodiversità: Cnr, il termine «rischia di venire abusato»
«Questa tendenza può rivelarsi rischiosa in quanto non restituisce la complessità del concetto di “biodiversità” e dei servizi ecosistemici da cui dipendiamo»
[6 Febbraio 2023]
Un po’ come accaduto con lo sviluppo sostenibile e col cambiamento climatico, il concetto di biodiversità è sempre più usato nel dibattito pubblico come in quello scientifico, ma solo in una minoranza dei casi viene impiegato a ragion veduta, come emerge da un nuovo studio pubblicato su Current biology da un team di ricercatori del Cnr e del Finnish Museum of Natural History.
Il termine biodiversità – traduzione dall’inglese biodiversity, a sua volta abbreviazione di biological diversity – è stato coniato alla fine degli anni ’80 dall’entomologo americano Edward O. Wilson per indicare la grande ricchezza e varietà di vita sulla terra, intesa come l’insieme di piante, animali e microrganismi che costituiscono gli ecosistemi: è oggi entrato a far parte del linguaggio comune, soprattutto per descrivere la crisi di biodiversità che si registra a livello globale. La parola è, inoltre, entrata nella legislazione Ue e inserita nell’articolo 9 della Costituzione italiana.
«Proprio per il grande interesse mediatico che riveste il tema della conservazione e gestione della natura, il termine “biodiversità” rischia di venire abusato – spiega Stefano Mammola, ricercatore dell’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irsa) e membro del gruppo di lavoro Biodiversità dell’Ente (Cnr-Dsstta) – Ad esempio, la nostra analisi mostra che circa un quinto degli articoli scientifici che usano la parola “biodiversità” nel titolo non la misurano in alcun modo, mentre i restanti articoli – che invece calcolano sul campo la diversità biologica – in media considerano solo una porzione piccolissima della biodiversità esistente nella zona, circa il 3%, con pochi articoli maggiormente comprensivi, che arrivano a contemplare il 40% dell’insieme delle forme viventi di una data regione».
L’articolo mostra anche, in dettaglio, le marcate differenze che si registrano tra gruppi di organismi: i vertebrati, ad esempio, vengono studiati molto di più di altri organismi; ulteriori differenze si registrano anche tra aree geografiche (percentuali minori in Africa e Sudamerica), tipo di habitat (minore in habitat terrestri rispetto a habitat acquatici), e tipo di analisi (sorprendentemente, minore biodiversità quando si usano i big data).
«Questa tendenza può rivelarsi rischiosa in quanto non restituisce la complessità del concetto di “biodiversità” e dei servizi ecosistemici da cui dipendiamo – conclude Diego Fontaneto (Cnr-Irsa) – È importante, invece, stabilire una linea comune per porre in essere azioni di salvaguardia di questo patrimonio».