La grammatica della lingua che parliamo influenza la nostra percezione del mondo

Lo dimostra il Murrinhpatha, una lingua aborigena australiana con un ordine delle parole flessibile

[25 Ottobre 2023]

All’inizio del XX secolo il linguista Benjamin Lee Whorf notò che la lingua Hopi, parlata da un popolo che viveva nell’attuale Arizona, non aveva parole o elementi grammaticali per rappresentare il tempo e che questo significava che gli Hopi non avevano il concetto del tempo e sperimentavano quel che noi potremmo chiamare “il passaggio del tempo” in un modo completamente diverso. Un’idea che presupponeva un modo diverso di vedere il mondo diverso dai concetti incorporati nei linguaggi degli occidentali. Whorf si sbagliava perché gli Hopi hanno un sistema piuttosto complesso per descrivere il tempo e chi parla l’hopi è perfettamente in grado di pensare al passare del tempo, come del resto lo sono tutti gli esseri umani.

Come ricorda Christine Kenneally  su Scientific American, «Alla luce di questa consapevolezza, i linguisti moderni presuppongono che, anche se le strutture fondamentali del linguaggio possono differire – e anche se le lingue specificano cose come genere, numero, direzione e tempo relativo in modi diversi – tutti devono percepire il mondo nello stesso modo fondamentale».

Ma le lingue aborigene australiane complicano tutto. Lo studio “Sentence planning and production in Murrinhpatha, an Australian ‘free word order’ language” pubblicato su Linguistic Society of America da Rachel Nordlinger e Gabriela Garrido Rodriguez dell’università di Melbourne e da Evan Kidd cdel Max-Planck-Institut für Psycholinguistik, si occupa del Murrinhpatha, una lingua con caratteristiche affascinanti parlata dalla maggior parte degli abitanti  di Wadeye, un paesino di 2.500 abitanti sulla costa nordoccidentale dell’Australia. Nel Murrinhpatha, azione, partecipanti, proprietà e intenzione possono essere espressi con una sola parola. Una qualità, “polisintetica” che significa che molti affissi possono attaccarsi a un verbo e con ogni affisso aggiuntivo si accumula un altro strato di storia. Il significato trasmesso da una parola del genere contiene attori e recitazione intrecciati in un tutto complesso. Ad esempio, la singola parola mengankumayerlurlngimekardi significa «Stava frugando nelle nostre borse derubandoci».

Nel Murrinhpatha anche l’ordine delle parole libero: in una frase, soggetti, verbi e oggetti possono e si trovano  in qualsiasi posizione e questo significa che i bambini di due anni di Wadeye imparano a maneggiare parole estremamente complesse che hanno poca relazione con il contenuto di un tipico abbecedario in inglese o italiano.

La principale autrice dello studio, Rachel Nordlinger, una linguista dell’università di Melbourne che ha studiato il Murrinhpatha per 18 anni, e il suo team hanno condotto il primo esperimento psicolinguistico in questa lingua aborigena e spiegano che «46 adulti madrelingua Murrinhpatha hanno descritto una serie di scene transitive non correlate che sono state manipolate per l’umanità (± umano) nei ruoli di agente e paziente mentre venivano registrati i loro movimenti oculari. I relatori hanno prodotto un’ampia gamma di ordini delle parole, coerenti con la lingua che ha un ordine delle parole flessibile, con variazioni significativamente influenzate dall’umanità dell’agente e del paziente».

Dalla fine degli anni ’50 in poi una delle osservazioni più importanti della linguistica moderna fu che ogni bambino può imparare qualsiasi lingua. Quindi, tutti i bambini devono avere la stessa attrezzatura mentale per l’acquisizione del linguaggio. Nel 2009 la psicolinguista Anne Cutler osservò che, in parte a causa di questa verità lapalissiana, i ricercatori presumevano che anche i sistemi per l’elaborazione del linguaggio degli adulti fossero gli stessi e avrebbero prodotto risultati simili negli studi, indipendentemente dalla lingua usata per testarli. Gli esperimenti di elaborazione del linguaggio sono stati scritti, replicati e discussi senza prendere in considerazione il fatto che i diversi linguaggi utilizzati potrebbero aver avuto qualche effetto sui risultati. La Cutler ha notato che «Il punto non è che la diversità linguistica fosse del tutto invisibile, ma che l’obiettivo della ricerca era portare alla luce un sistema universale utilizzato da tutti gli esseri umani».

Con il passare del tempo questa visione è diventata sempre meno sostenibile. Una delle scoperte della Cutler è stata che gli ascoltatori segmentano un flusso vocale in base alla cadenza della loro lingua materna: i francofoni segmentano un flusso vocale in sillabe, mentre gli anglofoni lo segmentano in base alla posizione dell’accento.

Anche i linguisti che sono regolarmente sul campo in contatto con la straordinaria diversità delle lingue del mondo, dubitano da tempo dell’idea che la lingua madre di una persona non abbia alcun impatto sui suoi processi mentali. Inoltre, la maggior parte del lavoro sulle proprietà universali del linguaggio e sull’elaborazione del linguaggio è stato condotto utilizzando l’inglese e poche altre lingue più diffuse ma che probabilmente rappresentano meno del 5% della diversità linguistica mondiale.

Uno degli autori del nuovo studio, lo psicolinguista Evan Kidd, racconta a Scientific American che «L’obiettivo era trovare gli universali e spiegare le differenze. Ma la ricerca degli universali ha avuto luogo solo in un angolo dell’universo linguistico».

Anche se le lingue aborigene australiane appartengono a una grande famiglia linguistica, sono tra le meno studiate dagli psicolinguisti. Solo 200 anni fa in Australia si parlavano almeno 300 lingue aborigene, la maggior parte delle quali  apparteneva alla famiglia Pama-Nyungan, con decine di rami che discendevano da una protolingua parlata probabilmente 6.000 anni fa nella parte nordorientale dell’isola continente. Dall’inizio della colonizzazione in Australia nel 1788, il numero delle lingue aborigene ancora parlate dagli aborigeni si è più o meno dimezzato e, di quelle rimanenti, solo 13 vengono apprese come prima lingua dai bambini. Il Murrinhpatha, che fa parte del gruppo relativamente piccolo di lingue non Pama-Nyungan, è una di queste 13 e rappresenta un filo ininterrotto di un’eredità culturale dinamica che risale a molte migliaia di anni fa.

Secondo i ricercatori, «La sopravvivenza della lingua è a dir poco sorprendente». Wadeye fu fondata come missione nel 1935 e molti aborigeni subirono  l’assimilazione forzata: i bambini aborigeni venivano sottratti alle loro famiglie e rinchiusi in un collegio, dove venivano puniti, a volte in modo sadico, se parlavano la loro lingua. Don ve le popolazioni autoctone hanno subito abusi simili, spesso le lingue locali non sono sopravvissute. Inoltre, nella missione Wadeye vennero riuniti aborigeni di altri 10 gruppi linguistici, ma le lingue che parlavano non sono sopravvissute come il Murrinhpatha e ora restano solo pochissimi anziani che le conoscono. La Nordlinger  fa però notare che «I bambini di Wadeye parlano Murrinhpatha». Una volta la ricercatrice chiese a un’anziana, suo amica e consulente linguistica, come fosse possibile che, nonostante la crudeltà delle missioni e le punizioni delle suore, la sua gente parlasse ancora Murrinhpatha. «Ci limitavamo a sussurrare», rispose l’aborigena.

La 61enne Margaret Perdjert e il 41enne Stephen Bunduck di Wadeye, hanno imparato il Murrinhpatha dai loro anziani e poi hanno imparato l’inglese a scuola e, dato che parlano entrambe le lingue, hanno scoperto che hanno usi diversi: l’inglese è utile per parlare con gli estranei e aiuta i ragazzi della comunità a trovare lavoro. ma la loro cultura e la loro visione del mondo sono completamente radicate nel Murrinhpatha e dicono che «La lingua è vitale per la nostra comunità». In controtendenza, il numero di parlanti Murrinhpatha che lo imparano come prima lingua è in crescita ed è diventata la lingua franca di molti gruppi aborigeni locali che hanno storie linguistiche nettamente diverse.

La Nordlinger, che lavora sulla comprensione del Murrinhpatha dal 2005, dice di parlarlo come una bambina di tre anni, ma aggiunge che «Sospettavo da tempo che comprendere le esigenze che la lingua pone ai suoi studenti potesse aprire finestre sul pensiero umano».  Come direttrice della Research Unit for Indigenous Language (RUIL) Unità di ricerca per le lingue indigene dell’università di Melbourne, la Nordlinger è a capo del più grande team di ricercatori dedito sia allo studio delle lingue australiane che al sostegno dei parlanti indigeni nei loro obiettivi linguistici e sottolinea che «Ogni lingua rappresenta un’espressione unica dell’esperienza umana e contiene una conoscenza insostituibile sul pianeta e sulle persone, conservando al suo interno le tracce di migliaia di parlanti del passato. Ogni lingua offre anche l’opportunità di esplorare l’interazione dinamica tra la mente di chi parla e le strutture del linguaggio».

Nel 2015, la Nordlinger e Kidd hanno partecipato a un discorso sull’uso della tecnologia del tracciamento oculare negli esperimenti linguistici, presentato dallo psicolinguista Stephen Levinson, ora direttore emerito del linguaggio e della cognizione al Max-Planck-Institut für Psycholinguistik, e i cui studi hanno dimostrato una chiara relazione tra la grammatica della lingua di un partecipante – in particolare, il modo in cui erano ordinate le parole – e il modo in cui la persona valutava un’immagine: ad esempio, con l’immagine di una donna che lava un bambino, gli anglofoni, che percepivano la donna come soggetto, tendevano a guardare prima la donna. La Nordlinger evidenzia che «L’idea è che gli anglofoni si concentrino sulla cosa che esprimeranno come argomento. Quindi i partecipanti di lingua inglese si sono concentrati sulla donna e hanno iniziato a parlare. Poi hanno guardato il resto dell’immagine e hanno finito la frase. Tutto questo avviene in millisecondi».

Chi parlava Tseltal, una lingua indigena del Chiapas, in Messico, si è comportato diversamente. La grammatica di Tseltal obbliga i parlanti a produrre prima un verbo. Così, quando un team del laboratorio di Levinson ha utilizzato il tracciamento oculare per comprendere la pianificazione e la produzione delle frasi in Tseltal, ha scoperto che gli indigeni messicani vedevano la donna e il bambino in modo più uniforme, guardando avanti e indietro tra i due. Gli psicolinguisti chiamano questa codifica relazionale. Per la Nordlinger  «Ha senso. Se devi prima produrre il verbo, devi guardare attraverso l’immagine, capire cosa sta succedendo e valutarlo».

Durante la conferenza del 2015, la Nordlinger chiese a Levinson cosa accadrebbe  se i partecipanti parlassero una lingua con un ordine delle parole libero e Levis le rispose: «Non ne abbiamo idea”, ha detto Levinson». Kidd disse alla Nordlinger: «Dovremmo farlo!».

E Nordlinger studiava da 10 anni la lingua giusta: il Murrinhpatha. Per realizzare lo studio hanno utilizzato molte delle stesse immagini di Levinson, adattandone alcune al contesto: hanno sostituito i cervi con i canguri, le persone avevano la pelle più scura e hanno eliminato cose anomale come un cavallo e una carrozza.

I ricercatori erano anche preoccupati di come le condizioni dell’esperimento avrebbero potuto influenzare i risultati. Il Murrinhpatha ha un ordine delle parole libero, ma la Nordlinger e Kidd non sapevano se certe situazioni – come essere invitato a sedersi in una stanza e guardare una serie di immagini – potessero indurre gli aborigeni a mettere gli stessi elementi nello stesso ordine. Si sono limitati a dare istruzioni minime per non indurre le persone a utilizzare un ordine piuttosto che un altro.

I ricercatori hanno mostrato le immagini di un evento – una donna che lava un bambino, un coccodrillo sul punto di mordere un uomo, un canguro che prende a pugni una mucca – sullo schermo di un laptop e hanno chiesto ai partecipanti di descrivere quel che vedevano. I risultati sono stati sorprendenti. I parlanti Murrinhpatha hanno fatto qualcosa di completamente nuovo. «Era come col Tseltal – dice la Nordlinger – in quanto i parlanti guardavano in modo uniforme entrambi i personaggi in una scena, ma i parlanti Murrinhpatha lo facevano molto più velocemente e molto prima. E’ stata una codifica relazionale molto rapida. La cosa sorprendente è che stavano facendo così tanto nei primi 600 millisecondi». In quella finestra temporale iniziale i parlanti  Murrinhpatha guardavano avanti e indietro entrambi i personaggi della scena, ottenendo un’idea dell’intero evento. Quindi, una volta deciso quale ordine delle parole utilizzare, hanno iniziato a guardare principalmente al carattere menzionato per primo. A quel punto se viene prodotta una frase che inizia, ad esempio, con la donna invece che con il bambino, viene passato più tempo a guardare la donna. Se invece se veniva prodotta una frase che iniziava con il bambino, passavano più tempo a guardarlo. «In sostanza – spiega Nordlinger – quel che un parlante guardava inizialmente in modo prolungato dopo la finestra iniziale di 400 millisecondi era la cosa che veniva menzionata per prima».

E la questione non era solo quella di un parlante che menzionava semplicemente la prima cosa su cui gli era caduto lo sguardo:  volte gli aborigeni guardavano prima una delle figure nell’immagine, ma poi passavano un tempo prolungato a guardare l’altra figura, ed era la seconda figura a rappresentare il primo elemento della loro frase.

I ricercatori hanno anche scoperto che ogni individuo che parla Murrinhpatha ha, in media, più di 5 modi e mezzo diversi di ordinare soggetto, verbo e oggetto di una frase. La Nordlinger aveva sempre sostenuto che, a differenza di altre lingue, molte lingue australiane avevano un ordine delle parole libero e dice che  «Il tedesco viene spesso descritto come un ordine delle parole libero, ma quando lo stesso esperimento è stato condotto in tedesco da un altro ricercatore, i parlanti hanno utilizzato lo stesso ordine più del 75% delle volte. Per i parlanti Murrinhpatha, l’ordine delle parole era veramente libero. Attraverso l’intera serie di possibili risposte, i parlanti Murrinhpatha hanno prodotto 10 possibili ordini di parole. Non c’era un ordine preferito».

Perchè i parlanti Murrinhpatha rimbalzano avanti e indietro tra soggetto e oggetto più velocemente dei parlanti di qualsiasi altra lingua? Nordlinger e Kidd sospettano che «Quando qualcuno parla una lingua che ha un ordine delle parole veramente libero, è sotto pressione per prendere rapidamente decisioni sulla frase da pronunciare. Bisogna avere in mente l’intero evento molto prima in modo da poter decidere come esprimerlo».

La struttura polisintetica del verbo di Murrinhpatha ha influenzato il modello di elaborazione del linguaggio? Per rispondere a questa domanda, Sasha Wilmoth, allora uno dei dottorandi della Nordlinger ha condotto l’esperimento con i parlanti Pitjantjatjara, una lingua dalle popolazioni delle terre Anangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara, al confine tra il South ustralia e il Northern Territory. Anche il Pitjantjatjara ha un ordine delle parole libero, ma a differenza del  Murrinhpatha, non è una lingua polisintetica. Eppure Wilmoth ha ottenuto gli stessi risultati: i parlanti Pitjantjatjara hanno trascorso i primi 600 millisecondi spostandosi rapidamente avanti e indietro tra i due personaggi nella scena raffigurata e poi hanno iniziato a concentrarsi principalmente sul personaggio che è diventato il primo elemento della loro frase. E come i parlanti Murrinhpatha, i Pitjantjatjara hanno utilizzato una serie di ordini di parole, con ogni singolo parlante che ha utilizzato più ordini di parole nella raccolta di immagini e l’intero gruppo utilizzando tutte le possibilità.

La Nordlinger sottolinea che «Naturalmente tutti i cervelli umani sono uguali. Ma quando le persone esprimono i propri pensieri in parole, i loro processi mentali possono essere diversi, a seconda del linguaggio che utilizzano».

La Nordlinger e il suo team si sono concentrati sull’impatto dell’ordine libero delle parole in un momento critico nella formazione di una frase. Eppure la struttura della frase è solo un aspetto del complesso sistema multiparte che è il linguaggio. La questione di quanto il linguaggio possa influenzare il pensiero dovrebbe infatti sollevare molte domande.

Gary Lupyan, professore di psicologia all’università del Wisconsin-Madison, ha detto a Scientific American che «Le parole possono organizzare il modo in cui pensiamo al mondo e modellare il modo in cui lo percepiamo». In un recente esperimento, lui e i suoi colleghi hanno misurato quanto fosse difficile per gli anglofoni assegnare cerchi colorati in diversi modi a una categoria casuale (come “A” o “B”) se i colori erano facili da nominare (ad esempio, “rosso” o “blu”) o difficili da nominare (“lavanda leggermente neutra” o “rosa polveroso chiaro”). Tutti i colori, indipendentemente da quanto fossero nominabili in inglese, erano ugualmente facili da discriminare visivamente l’uno dall’altro. Anche così, Lupyan e i suoi colleghi hanno riscontrato «Forti differenze nella capacità dei partecipanti di apprendere quali cerchi rientrassero nelle diverse categorie in base alla facilità con cui i colori erano nominabili».

Lupyan spiega che «I vocabolari delle lingue sono sistemi di categorie. La lingua ci trascina in questi sistemi, un insieme di categorie rispetto a un altro. Per chi parla lingue diverse, molte di queste categorie si consolidano come unità di pensiero fondamentali. Insieme alla scienziata cognitiva Lera Boroditsky dell’università della California –  San Diego, Lupyan e altri ricercatori hanno recentemente esaminato un’ampia serie di studi sugli effetti del linguaggio sulla percezione visiva e hanno scoperto «Prove convincenti che il linguaggio influenza la nostra capacità di discriminare i colori».

Per il Murrinhpatha, al di là della finestra che Nordlinger, Kidd e i loro colleghi hanno aperto su come viene prodotta questa lingua, non possiamo ancora dire come la percezione dei singoli parlanti potrebbe essere ulteriormente modellata dalla loro lingua. «Eppure possiamo vedere chiaramente – dice ancora la Nordlinger – che nel tempo la cultura ha modellato la struttura della lingua. La parentela ha un’importanza centrale nella cultura Murrinhpatha, e la vediamo codificata nella struttura grammaticale. Quando parli di un gruppo di persone in  Murrinhpatha, devi declinare il verbo a seconda che le persone siano imparentate come fratelli o meno.

Allo stesso modo, il Murrinhpatha divide tutti i nomi in 10 classi diverse e la Nordlinger ha chiesto ai suoi studenti quali 10 categorie utilizzerebbero se dovessero dividere tutti gli oggetti nella loro lingua. (L’inglese non ha categorie di sostantivi grammaticalmente differenziati). Le classi di sostantivi Murrinhpatha sono: esseri umani familiari; tutti gli altri esseri animati; verdure e altri alimenti a base vegetale; lingua e conoscenza; acqua; luogo e ora; lance (usate per la caccia e le cerimonie); armi; cose inanimate;  fuoco. «Le cose diventano grammaticali – osserva la Nordlinger – quando la gente ne parla molto».

La cultura modella il linguaggio perché quel che conta per una cultura spesso viene incorporato nella sua lingua, a volte sotto forma di parole e talvolta codificato nella sua grammatica. Tuttavia è anche vero che in vari modi una lingua può influenzare l’attenzione e i pensieri di chi la parla. La lingua e la cultura formano un ciclo di feedback, o meglio, formano moltissimi cicli di feedback.

A un certo livello, ovviamente, comprendiamo già questo ragionamento. Nel corso dei minuti e dei giorni della nostra vita, vediamo come la percezione, il giudizio e le parole si intrecciano e si influenzano a vicenda. Ma come dimostrano la Nordlinger, Lupyan e i loro colleghi, «Alcuni di questi anelli formano vortici stretti di millisecondi che legano insieme la nostra percezione istantanea del mondo e il nostro modo abituale di inquadrarlo in parole. Ci sono anche circuiti interconnessi molto più ampi che legano i parlanti nel corso della storia. Gli argomenti discussi da generazioni lontane possono modellare la struttura del linguaggio di un parlante oggi, e questo a sua volta può influenzare a livello micro il modo in cui quel parlante valuta il mondo e produce parole per descriverlo».

Per Perdjert, la lingua viene prima di tutto, perché è così che lei e gli altri anziani trasmettono la conoscenza sacra ai loro giovani. Ma lingua, cultura e conoscenza sono in realtà per sempre intrecciate e integrali l’una con l’altra. «Murrinhpatha – spiegano lei e Bunduck – è tradotto come “ Murrinh ”, che significa “linguaggio”, e “ patha ”, che significa “buono”: buon linguaggio. “Lingua forte”».

la Nordlinger  riassume: «Quel che è chiaro ora è che più poniamo domande empiriche sul linguaggio e sui suoi numerosi cicli in tutte le lingue del mondo, più conosceremo i diversi modi che esistono di pensare come un essere umano».

Ma anche se i ricercatori stanno cercando di esplorare tutto l’universo linguistico umano, quell’universo si sta restringendo a un ritmo spaventoso. The Language Conservancy, un’ONG Usa fondata da educatori e attivisti indigeni, stima che «Il 61% delle lingue parlate come prima lingua nel mondo nel 1795 sono condannate o estinte».

Quando all’inizio della sua carriera la Nordlinger lavorava con una comunità che parlava Wambaya, un’altra lingua non pama-nyungana parlate negli Altipiani Barkly del Northern Territory, gli anziani le chiesero che il lavoro fosse svolto in modo che le generazioni più giovani avessero la possibilità di imparare la lingua dei loro antenati. All’epoca erano rimasti 8 – 10 parlanti fluenti, oggi sono tutti morti. Anche in questo caso una comprensione più profonda del Murrinhpatha può essere d’aiuto. Come con altre comunità linguistiche australiane, ci sono molte iniziative indigene per mantenere la lingua. Linguisti ed educatori lavorano con la gente di Wadeye per sostenere i loro obiettivi di apprendimento e per contribuire a una comprensione della lingua in costante evoluzione.

Con l’obiettivo di informare su come la lingua viene insegnata a scuola, i ricercatori della RUIL hanno studiato come i bambini aborigeni acquisiscono per la prima volta il Murrinhpatha e hanno lavorato con Perdjert e altri anziani per gestire programmi di alfabetizzazione  Murrinhpatha in una prigione di Darwin e hanno esplorato il modo in cui i bambini raccontano storie in Murrinhpatha. Hanno monitorato come la lingua è cambiata nel corso di tre generazioni, scoprendo che «La sua grammatica non è stata influenzata dall’inglese, anche se, come tutte le lingue, è cambiata nel corso del tempo». Il Centro di produzione letteraria della scuola comunitaria di Wadeye lavora con la gente del posto per produrre materiali curriculari bilingue per sostenere l’alfabetizzazione Murrinhpatha dei bambini tanto quanto la loro alfabetizzazione inglese. Perdjert e Bunduck dicono che «Essere in grado di leggere e scrivere. così come di parlare Murrinhpatha dà fiducia ai bambini. Ma anche prima che i bambini vadano a scuola, gli anziani li portano nella boscaglia e si siedono con loro attorno al fuoco per insegnare loro la lingua. Descrivono il mondo naturale e raccontano storie di sogni sugli esseri che hanno creato il loro mondo». Bunduck insegna anche i canti, storie in canti cerimoniali che includono luoghi sacri e le rotte che gli antichi esseri seguivano attraverso l’Australiae.  Bunduck conclude: Quando ho imparato le canzoni dai miei nonni, è stato un regalo che mi hanno fatto. Ora trasmetto le linee dei canti ai giovani della generazione successiva, offrendo loro questo dono».