A rischio il 10% delle produzioni di qualità certificate

Agricoltura, la crisi climatica ha già compromesso 100 prodotti Dop e Igp italiani

La Cia interviene a Fieragricola: «La sfida contro i cambiamenti climatici va vinta adesso». Eppure critica i «vincoli» di Pac e Green deal

[1 Febbraio 2024]

Alla 116esima edizione di Fieragricola, in corso a Verona mentre a Bruxelles gli agricoltori da mezza Europa sono arrivati in protesta contro la transizione ecologica, si è alzato l’ennesimo velo sui rischi reali che minacciano la tenuta dell’agricoltura nazionale (e non).

La Confederazione italiana agricoltori (Cia) ha tenuto un convegno dal titolo “Dop e Ipg nella crisi climatica”, per indagare le ricadute dei cambiamenti climatici sui prodotti agroalimentari italiani, di qualità e certificati.

La Dop economy ha superato i 20 miliardi di euro produzione e «dipende completamente dalla salute dei territori, elemento cardine del sistema di certificazione». Il fatto che il 60-70% dei suoli europei sia già oggi in cattiva salute, in primis per l’abuso di concimi, non aiuta. E l’aumento dei fenomeni meteo estremi (in crescita del 22% a livello nazionale, solo nell’ultimo anno) sta peggiorando di molto la situazione.

«Finora i cambiamenti climatici hanno tolto all’Italia un frutto su quattro e messo a rischio circa 1200 prodotti. Un centinaio, sottolinea Cia, sono Dop e Igp», spiegano dalla Cia, che vede compromesso già «il 10% delle produzioni certificate» nazionali.

Dal Piemonte alla Sicilia, tra le regioni più in difficoltà, stanno morendo vere eccellenze del Made in Italy agroalimentare di qualità, come la robiola di Roccaverano Dop, la mela dell’Alto-Adige Igp, l’olio extravergine Garda Dop, il pomodoro San Marzano Dop, i limoni di Sorrento Igp e il pecorino siciliano Dop. La cozza di Scardovari Dop è minacciata dal granchio blu, i vigneti Dop e Igp, specie al centro-sud, soffrono sotto la peronospora, mentre l’alluvione ha dato il colpo di grazia, in Emilia-Romagna, a tipicità come il lambrusco di Sorbara Doc e le pere Igp, quest’ultime in picchiata produttiva del 75%.

Per un’ampia quota della filiera delle indicazioni geografiche, tra le principali cause del crollo ci sono «siccità e innalzamento delle temperature (86%), alterazione del microclima negli areali di produzione (68%) grandine (55%) e alluvioni (42%), un toccasana sulla diffusione di almeno 40 patologie vegetali e animali (flavescenza dorata, mal dell’esca, oidio, mosca, brucellosi, etc)».

In un simile contesto, la Cia chiede un regolamento europeo e una legge nazionale sulle biotecnologie per avere in campo colture più resistenti al cambiamento climatico e alle fitopatie; sollecita in particolare un Piano nazionale per l’agricoltura di fronte alla crisi climatica, comprendente un Fondo unico per le fitopatie, una programmazione strutturata a supporto dell’agricoltura di precisione, un nuovo piano acque a uso irriguo per i periodi più siccitosi e una revisione degli strumenti di gestione del rischio.

Eppure resiste il riflesso condizionato, o meglio la dissonanza cognitiva, che vede gli agricoltori – alcuni, non quelli della filiera biologica ad esempio – dare addosso al Green deal europeo, ovvero la principale strategia in campo per dare un futuro sostenibile (anche) all’agricoltura.

«La sfida contro i cambiamenti climatici – dichiara infatti il presidente nazionale di Cia, Cristiano Fini –  va vinta adesso, con un approccio multidisciplinare, orientato da ricerca e innovazione sostenibile, che contempli questo mix di misure e progetti operativi. In parallelo, serve un’azione forte da parte dell’Europa a partire dal regolamento sulle Ngts. Bruxelles smetta, dunque, di deludere gli agricoltori e riveda vincoli e obblighi Pac e Green deal. Lo diciamo da sempre, la transizione verde deve essere graduale e costruita insieme al comparto agricolo, con soluzioni alternative per continuare a operare in competitività».