Tre anni di nulla di fatto per il Piano nazionale dei dragaggi sostenibili
Cambiano i nomi dei ministeri, ma gli schemi di decreto per regolare l’attività di dragaggio portuale e costiero ancora non si vedono
Viviamo in un Paese davvero strano, in cui le cose concrete non riescono quasi mai a trovare il tempo e lo spazio necessari per essere attuate: risulta purtroppo esemplare in tal senso l’esempio della normativa sui dragaggi sostenibili.
La portualità italiana ha costantemente bisogno di interventi di adeguamento dei tiranti d’acqua, sia per ragioni che possiamo definire fisiologiche – l’interrimento dei bacini portuali è un fenomeno naturale che si ripresenta periodicamente –, sia per interventi infrastrutturali importanti, che diversi porti italiani hanno necessità di realizzare.
Per usare un eufemismo elegante, colpisce la flemma con la quale l’apparato statale centrale affronta o, meglio non affronta problemi che meriterebbero invece la necessaria celerità.
Invece eccoci ancora qui, fermi al punto di partenza a ripeterci ancora la stessa domanda: a che punto è il piano nazionale per i dragaggi sostenibili?
Siamo ancora al punto, a tre anni di distanza, di attendere l’emanazione degli schemi di decreto per la compiuta regolamentazione delle attività di dragaggio portuale e costiero?
In questo lasso di tempo i ministeri coinvolti hanno fatto in tempo a cambiare nome, passando rispettivamente da Ministero della transizione ecologica (Mite) a Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (Mase) e da Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims) a Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (Mit).
La dicitura è diversa, ma per i dragaggi sostenibili il risultato è lo stesso nulla di fatto. Uno stallo che non è affatto a costo zero: mentre il gap normativo non viene colmato a livello nazionale, sui territori locali si moltiplicano iniziative autonome, rischiando il diffondersi di un Far West dei dragaggi.