Riceviamo e pubblichiamo
Siccità, cambiamenti climatici e piccoli cicli dell’acqua
Solo la presenza di acqua nel suolo e una copertura di vegetazione funzionale ad alimentare l’evaporazione possono garantire il mantenimento o il ripristino del piccolo ciclo dell’acqua
[23 Febbraio 2024]
Le prolungate siccità verificatesi negli ultimi due decenni sono sempre state presentate come emergenze, spesso e volentieri interpretate come conseguenze dei cambiamenti climatici, ma soprattutto come una problematica da affrontare realizzando invasi o ricorrendo a soluzioni energivore basate sul processo di desalinizzazione.
Sebbene sia un fatto ormai accertato che il riscaldamento globale genera altri fenomeni climatici estremi, come una maggior frequenza di piogge intense, intercalate da lunghi periodi di siccità, questa chiave di lettura, individuando responsabilità piuttosto indistinte, fornisce un comodo alibi per sottrarsi alle proprie responsabilità. Insomma, le colpe sarebbero dell’intera umanità e le soluzioni un compito affidato agli accordi internazionali. A livello locale non resterebbe altro che adottare misure di adattamento. Quindi, anche per la siccità, invece di affrontare il problema alla radice, si spera di risolverlo confidando ancora nell’approccio tecnocratico che ha contribuito a generarlo.
Il Centro Italiano Studi di Biologia Ambientale[1], associazione culturale che da anni svolge una intensa attività di formazione per operatori nel campo delle indagini ambientali, affrontando l’argomento siccità in vari ambiti di discussione[2], ha trovato di notevole interesse il lavoro svolto da un team di ricercatori appartenenti a varie realtà scientifiche e sociali della Slovacchia, che poneva al centro del contrasto ai cambiamenti climatici l’adozione di un nuovo paradigma dell’acqua che servisse a mitigarne gli effetti, tra cui la siccità. Le soluzioni proposte hanno spinto l’Associazione a realizzarne una versione italiana, pubblicata in forma cartacea e online[3], in modo da renderla fruibile ai propri soci e a chiunque fosse interessato all’argomento.
Il team slovacco afferma che la relazione esistente tra i cambiamenti climatici e i cambiamenti dei cicli idrologici non è univoca, asserendo che «mentre l’attenzione finora si è focalizzata sull’impatto dei cambiamenti climatici sul ciclo dell’acqua, il nuovo paradigma – al contrario – raccomanda di concentrare l’attenzione sugli effetti climatici dei cambiamenti del ciclo dell’acqua», aprendo così nuove prospettive per la soluzione di problemi associati ai cambiamenti climatici stessi, specie a livello locale.
Secondo tale visione il riscaldamento del clima non sarebbe del tutto responsabile della comparsa di eventi estremi e, interpretando il grande ciclo dell’acqua come un insieme di piccoli cicli, si riserva una opzione al fatto che, interrompendo questi ultimi, ad es. con l’impermeabilizzazione dei suoli, un drenaggio forzato delle acque, la deforestazione, si può dare origine a importanti crisi climatiche locali, compresa la siccità.
Quindi condizione necessaria, anche se non sufficiente, per avere stabilità del clima è provvedere al riequilibrio del ciclo dell’acqua, ripristinandone i piccoli cicli che lo compongono.
Il nuovo paradigma dell’acqua, non si contrappone a quello che viene chiamato “vecchio paradigma”, ma cerca di provvedere agli errori che esso contiene. Il nuovo paradigma tende a recuperare un rapporto con l’acqua rispettoso dei cicli idrologici, ad accrescere la cultura dell’acqua, a dissolvere le paure ancestrali che da essa sono originate proprio per il comportamento errato dell’uomo.
«Il vecchio paradigma dell’acqua si fonda su una grande contraddizione: da una parte è incentrato sulla continua ricerca di nuove risorse idriche e, dall’altra, si sbarazza delle acque piovane (allontanandole rapidamente dal territorio) quasi che, anziché una risorsa, fossero un elemento indesiderabile che infastidisce la tranquillità della nostra esistenza».
Capire gli effetti che le influenze locali hanno su ambiti più ampi, favorisce l’individuazione di soluzioni di successo, secondo il principio ancora valido di “pensare globalmente ma agire localmente”.
«Soluzioni sostenibili a livello locale contribuiscono alla stabilità a livello regionale, continentale e globale». Il paradigma presentato nell’opera del team slovacco offre indicazioni sufficienti cui ispirarsi, sia per il pensiero globale che per l’azione locale.
«Il piccolo ciclo dell’acqua, detto anche ciclo breve (o chiuso) dell’acqua, è caratteristico per ogni territorio idrologicamente non alterato». La miriade di piccoli cicli, contrariamente a quanto si possa pensare, assolve un ruolo di notevole importanza. Una buona percentuale di pioggia che cade sulle terre emerse (circa 56%) deriva dal piccolo ciclo. Ma l’equilibrio del piccolo ciclo è legato alla saturazione idrica dei suoli che vanno a rinnovare le precipitazioni per mezzo di esso. L’azione dell’uomo, trasformando e drenando il territorio illimitatamente, provoca effetti negativi sul regime climatico e termico locali. Le grandi quantità di deflussi producono meno evaporazione e meno precipitazioni. Questi sono generati dal rapido allontanamento delle acque piovane che, invece di essere recapitate negli acquiferi terrestri, vanno solo a incrementare il livello dei mari.
«Trascurare piccole differenze tra entrate e uscite idriche diventa particolarmente insidioso e pericoloso proprio quando queste differenze, pur molto piccole, sono sempre unidirezionali nel corso degli anni: ciò infatti, può portare al progressivo inaridimento di un territorio per interi decenni senza che gli idrologi ne capiscano mai la ragione».
Tali considerazioni dovrebbero indurre, ad esempio, a cambiare radicalmente l’attuale approccio alla gestione dei bacini fluviali. Ad esempio proteggendo e ripristinando le pianure alluvionali, come suggerisce l’Agenzia Europea per l’Ambiente[4]. Tra le loro molteplici funzioni troviamo la ricarica delle falde, indispensabili e illimitate riserve idriche naturali in grado di contrastare effettivamente la siccità. La pressante regimazione dei fiumi non fa altro che favorire il trasporto di acqua verso il mare sottraendola al territorio e alla naturale evaporazione. Mentre «se in un certo territorio si vogliono avere precipitazioni stabili, è fondamentale garantire l’evaporazione dallo stesso territorio. Con una certa approssimazione (trascurando l’accumulo), l’evaporazione dal terreno è la differenza tra le precipitazioni e il deflusso. Se si verifica un grande deflusso di acqua da un territorio, ciò andrà a scapito dell’evaporazione e, pertanto, provocherà una successiva diminuzione delle precipitazioni. In tal modo il volume d’acqua nel piccolo ciclo sul territorio diminuirà gradualmente. Riducendo i deflussi superficiali dal territorio al mare, invece, si ottiene un incremento dell’evaporazione e quindi “si semina la pioggia”».
Ma questo complesso meccanismo non può prescindere dalla presenza di vegetazione che assolve una funzione importante dovuta al suo metabolismo. Attraverso il meccanismo dell’evapotraspirazione, infatti, la vegetazione pompa acqua dal suolo trasformandola in vapore, così facendo sottrae calore all’ambiente circostante producendo al contempo un benefico effetto di raffrescamento.
Solo la presenza di acqua nel suolo e una copertura di vegetazione funzionale ad alimentare l’evaporazione possono garantire il mantenimento o il ripristino del piccolo ciclo dell’acqua, in grado di produrre la pioggia a livello locale.
Un terreno privo di copertura vegetale trasforma la radiazione solare in calore sensibile e provoca un incremento degli sbalzi di temperatura tra giorno e notte o tra località con differenti regimi termici. Le correnti ascendenti di aria calda portano a più lunga distanza il vapore provocando la rottura del piccolo ciclo: un meccanismo tipico delle grandi città e delle aree deforestate o intensamente drenate dove, durante l’estate, si origina un ombrello climatico caldo che allontana le piogge.
Un esempio che dovrebbe invitare alla prudenza è oggi ben rappresentato dalla situazione in cui versa l’Amazzonia che, a causa dell’intensa deforestazione, non riesce più a produrre le stesse piogge con cui alimentava la propria foresta pluviale, perdendo importanti quote di resilienza[5].
Per osservare la realtà che ci circonda da un punto di vista diverso da quello a cui siamo stati abituati, occorre però rinunciare all’arroganza di voler dominare la natura e all’idea di soluzioni facili, ma costosissime, forse non sempre immuni da pressioni economiche e facili guadagni.
Nelle numerose dichiarazioni rilasciate durante le fasi acute della siccità da coloro che, a vario titolo, gestiscono il ciclo delle acque, difficilmente si associa la mancanza di acqua dal territorio alle errate strategie utilizzate correntemente dall’uomo e ispirate al “vecchio paradigma”, cioè quel sistema cronico-strutturale che tende a liberarsi rapidamente delle acque piovane. Non si accetta quindi la sfida lanciata dal nuovo paradigma, che suggerisce di affrontare il problema alla radice, per ricorrere invece a soluzioni di emergenza, come la realizzazione di nuovi invasi che, in assenza di pioggia, non verranno mai riempiti.
di Gilberto Natale Baldaccini*
*biologo, socio Cisba, dirigente Arpat in quiescenza
[2] http://www.cisba.eu/images/rivista/biologia_ambientale/BAonline2020/Baldaccini_Siccita_invasi_o_buonsenso.pdf
[3]http://www.cisba.eu/images/rivista/biologia_ambientale/BA_online_2021/Kravcik_NUOVO_PARADIGMA_ACQUA.pdf
[4] https://www.eea.europa.eu/publications/why-should-we-care-about-floodplains/why-should-we-care-about-floodplains
[5] https://www.nature.com/articles/s41558-022-01287-8
https://www.nature.com/articles/s41586-021-03629-6