Jobs Act, ecco le nostre proposte per il lavoro sostenibile

Il contributo del nostro think tank Ecoquadro nel dibattito lanciato da Matteo Renzi

Le luci in fondo al tunnel della crisi si sono già accese (e spente) innumerevoli volte per l’Italia, e pur senza abbandonare l’ottimismo guardiamo ai dati sul lavoro per dire che di luce vera, purtroppo, rischiamo di non vederne ancora per un bel po’. Il tasso di disoccupazione rilevato dall’Istat è arrivato al 12,7% e quello giovanile sale al picco monstre del 41,6%, eppure non è stato il lavoro al centro dell’azione politica. In questo scenario il Jobs Act presentato dal neo-segretario Pd rappresenta una novità. È ancora in forma di dichiarazione d’intenti, ma almeno un paio di meriti li ha già conquistati: riaccendere l’attenzione sul lavoro e aprire il dibattito a quanti vogliano partecipare. «Nessuno si senta escluso – ha precisato Matteo Renzi – è un documento aperto, politico, che diventerà entro un mese un vero e proprio documento tecnico». Chi prende posizioni critiche deve assumersi anche la responsabilità di portare proposte, e con il nostro think tank Ecoquadro non ci siamo fatti ripetere l’invito: lavoro, ambiente e cultura sono il mix sul quale crediamo sia giusto puntare. E le nostre proposte, elaborate insieme agli economisti Luciano Canova, Massimiliano Mazzanti e Daniela Palma, al demografo Alessandro Rosina, all’esperta di educazione Vittoria Gallina e al giornalista scientifico Pietro Greco, sono qui per dimostrarlo.

Lavorare per una riconversione ecologica dell’economia perde di significato senza ridare valore all’industria attraverso un uso più efficiente delle risorse. L’energia, certo, ma soprattutto la negletta questione delle materie prime e l’utilizzo di quelle derivanti da riciclo: un percorso da realizzare in seno a un’Europa dalla quale possiamo e dobbiamo chiedere di più, a livello politico e di rilancio economico. Attuare il Manifesto europeo darebbe gambe alla volontà di garantire lavoro qualificato attraverso la green economy, ma lo scenario del cambiamento non si realizza senza attori preparati: i ¾ della popolazione italiana sono classificati dall’Ocse come «ai limiti dell’analfabetismo» o con «competenze molto limitate». Rilanciare i finanziamenti alla scuola pubblica, portare gli investimenti in R&S al 3% del Pil – come stabilito dalla strategia Europa 2020 – e delineare un piano nazionale per il lifelong learning non sarebbe solo un investimento per un’economia migliore, ma anche una strada possibile per un ben-essere più sostenibile della nazione: un cittadino più consapevole può aspirare a modelli di consumo e di realizzazione personale diversi da quelli calati dall’alto. Senza consapevolezza la scelta rimane utopia.

Pietro Greco, giornalista scientifico e scrittore: L’Italia è in una condizione di declino economico da quasi trent’anni a causa, soprattutto, della specializzazione produttiva della sua industria, fondata sulle medie e basse tecnologie. Per cambiare la specializzazione produttiva e puntare sulla produzione di beni e servizi ad alto tasso di conoscenza – l’unica produzione in grado di competere sui mercati internazionali e di remunerare bene gli addetti – occorre una nuova classe imprenditrice. Ci sono giovani preparati che possono diventare i nuovi imprenditori. Occorre favorirli. In mancanza di venture capital privati, è lo stato che deve intervenire. La proposta è finanziare con 500.000 euro 10.000 progetti di sviluppo di imprese per la produzione sostenibile di beni e servizi innovativi e ad alto tasso di conoscenza. In totale si tratta di 5 miliardi di euro che – a differenza sia dell’abolizione dell’IMU sia di un indiscriminato abbassamento delle tasse sul lavoro – consentirebbe di dare lavoro ai giovani e di iniettare una potente carica di innovazione e creatività nel paese.

Daniela Palma, economista: Le statistiche sull’istruzione e sulla ricerca scientifica mostrano che da anni l’Italia ha rinunciato ad investire nel suo “sistema della conoscenza” collocandosi in posizioni di sempre maggiore retrovia nell’ambito dei paesi industrializzati. Tra le attuali misure che danneggiano strutturalmente il sistema della conoscenza dell’Italia, quella del porre dei vincoli agli incrementi di organico nelle strutture accademiche e in quelle degli enti di ricerca, si configura certamente tra i più deleteri. Le misure di limitazione del cosiddetto turn over (sebbene recentemente ammorbidite) impongono infatti una sistematica riduzione delle risorse umane (già scarse) presenti nelle strutture accademiche e in quelle degli enti di ricerca. Non ha senso, peraltro, parlare di risparmio dal momento che i vincoli di turnover sono posti a prescindere dalla capacità di spesa per le proprie risorse che ciascun bilancio esprime. L’abolizione di qualunque tipo di vincolo di turnover nelle strutture accademiche e in quelle degli enti di ricerca risulta dunque essere un primo fondamentale passo da compiere per iniziare ad invertire il declino del suo “sistema della conoscenza” nel quale l’Italia già da troppo tempo si è immessa.

Massimiliano Mazzanti, economista: Parte del Jobs Act si focalizza e focalizzerà sulla riduzione del carico fiscale sul lavoro ed impresa, inclusa l’IRAP regionale. Certamente l’appeal di un tale intervento è elevato, tuttavia si tratterebbe di sposamenti del carico fiscale ‘dal lavoro alle cose’: bisognerebbe introdurre nel Jobs Act la riforma fiscale verde d’ispirazione Delors. È semplicemente errato affermare che la riduzione delle imposte si leghi alla crescita, al massimo si lega positivamente ad un aumento della domanda di beni e di lavoro nel breve periodo. Importante, ma ciò che serve è (anche) mettere le basi per una crescita diversa e più verde nel medio lungo periodo: tasse ambientali e maggiori spese in R&S ed education fanno parte del pacchetto necessario per coniugare competitività e sostenibilità. Solo una società ed un’economia basata fortemente su investimenti in R&S privata e pubblica – oltre il 3% di Lisbona può tentare di essere più competitiva e più leggera, cioè efficiente nell’uso delle risorse ambientali. R&S che può essere in parte finanziata da maggiori oneri sull’uso di quelle risorse. Nel caso delle imprese private si tratterebbe di una sfida virtuosa da cogliere, ad esempio gestire a livello di settore/regione le maggiori risorse fiscali per interventi di detassazione del lavoro e degli investimenti in ricerca. Un ammontare di risorse e di spostamento fiscale pari all’1.5% del Pil (all’appello mancano però almeno 1.7% di punti di Pil in R&S) è ragionevolmente raggiungibile e potrebbe essere un piccolo shock che si protrae nel tempo con effetti diffusi.

Luciano Canova, economista: Il governo inglese da anni prevede un Behavioural Insights Team, unità preposta a organizzare, implementare e testare RCTs (randomised controlled trials), esperimenti controllati per valutare l’efficacia di una politica pubblica. Di fatto, è l’applicazione del protocollo medico per misurare l’efficacia di un intervento pubblico, con  conclusioni certe su impatto e direzione causale tra fenomeni. Si tratta di uno strumento non banale, sia perché, in tempi di vacche magre, consente di utilizzare efficientemente denaro pubblico, eventualmente da liberare per interventi pro-crescita. Sia perché ha dirette applicazioni anche in ambito di mercato del lavoro. Moltissimi sono gli esperimenti condotti a livello scolastico per studiare l’efficacia di nuovi metodi di insegnamento o di infrastrutture informatiche (che, migliorando i risultati degli studenti, ne migliorano anche le prospettive professionali); altri sono pensati per valutare il funzionamento di programmi di inserimento al lavoro. Altri ancora misurano le capacità innovative di alcuni modelli di finanziamento alle piccole imprese. Il fatto è che il lavoro non è solo se stesso, ma multidimensionale anch’esso (non a caso la nostra repubblica sul lavoro si fonda). Ecco dunque la necessità di una visione sistemica anche riguardo alle molteplici politiche che possono essere implementate per agevolarne la crescita.

Alessandro Rosina, demografo: L’Italia proprio perché ha meno giovani, come conseguenza dell’accentuata denatalità, e meno laureati, è particolarmente esposta al rischio che senza la valorizzazione qualitativa delle nuove generazioni il loro contributo alla crescita diventi marginale alimentando una spirale negativa che trascina verso il basso condizione dei giovani e spinta allo sviluppo del paese.  Serve quindi un’azione a tenaglia, che consenta. a) sia di alzare le competenze dei livelli più bassi per adeguarle a quanto richiesto nel mercato del lavoro (agendo quindi sull’alternanza scuola-lavoro e sulla formazione on the job);  b) sia di far fare un salto di qualità al sistema produttivo per riallenarlo al meglio di quello che il capitale umano delle nuove generazioni può dare (noi investiamo un terzo in meno in ricerca, sviluppo e innovazione rispetto a Ue-15), con ricadute positive su crescita e competitività.

In mezzo stanno i Neet, ovvero i giovani già usciti dal sistema formativo formale, in parte con competenze inadeguate rispetto all’offerta di lavoro, in parte scoraggiati dalle scarse possibilità di adeguato impiego. Un fenomeno che si intreccia culturalmente anche con un’assuefazione alla lunga dipendenza passiva dei giovani italiani dalla famiglia di origine che, in assenza di adeguate politiche di welfare pubblico, diventa l’unico ammortizzatore sociale. Una condizione su cui si deve intervenire soprattutto attraverso: c) politiche attive in linea con le migliori esperienze europee (noi investiamo su questa voce la metà rispetto al resto di Eu-15), in particolare ristrutturando i centri per l’impiego. I servizi per l’impiego devono essere in grado di prospettare un piano di sviluppo individuale in coerenza con le competenze del giovane e con la domanda di lavoro sul territorio. L’obiettivo deve essere quello di a) aumentare l’occupabilità e fornire orientamento per tutti; b) intermediare direttamente avviamenti al lavoro soprattutto per i soggetti più deboli (quelli più a rischio di disoccupazione di lunga durata).

Vittoria Gallina, esperta di educazione e Life Long Learning: Il  rapporto Mc Kinsey («Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione»), riferito a otto paesi,  denuncia che  la situazione italiana è la peggiore: il 47% degli imprenditori italiani dicono di  non riuscire a trovare i lavoratori giusti, mentre gli aspiranti a un lavoro ignorano “come e dove farsi cercare”. Il  Job Act dovrà trovare soluzioni  a problemi drammatici che interrogano soprattutto il sistema formativo e istruttivo. La scuola italiana svalorizza ancora i percorsi formativi  più direttamente orientati al lavoro (istituti tecnici e professionali), selezionando verso questi indirizzi gli alunni più deboli e rendendo definitive le scelte basate sui risultati della scuola media. Le filiere formative tecnico professionali non hanno sbocchi in percorsi non accademici post diploma, come sedi qualificate di alta specializzazione tecnico scientifica. Le “politiche  attive del lavoro”, infine, dovranno essere riqualificate in contenuti e strumenti  per garantire, a chi aspira al lavoro e a chi deve essere ricollocato, opportunità efficaci di inserimento e di re-inserimento.

di Redazione

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