Davos: il mondo sta uscendo dalla crisi, ma le disuguaglianze rischiano di bloccare ogni progresso
[21 Gennaio 2014]
Domani prende il via a Davos il meeting annuale del World economic forum (Wef) che ha per tema “The Reshaping of the World: Consequences for Society, Politics and Business” e il Wef lo presenta così: «Profonde forze politiche, economiche, sociali e, soprattutto, tecnologiche stanno trasformando le nostre vite, comunità ed istituzioni. Attraversando rapidamente i confini geografici, di genere e generazionali, stanno spostando il potere dalle gerarchie tradizionali alle gerarchie networked. Eppure la comunità internazionale rimane concentrata sulla crisi piuttosto che guidarla strategicamente verso i trends che premono a livello globale e regionale la trasformazione dell’industria. “Il rimodellamento del Mondo: conseguenze per la società, la politica e il business” è quindi il focus tematico del World Economic Forum Annual Meeting 2014. Il nostro obiettivo è quello di sviluppare le intuizioni, le iniziative e le azioni necessarie per rispondere alle sfide attuali ed emergenti».
Da Davos arrivano notizie positive sulla ripresa dell’economia mondiale, che sembra più rapida del previsto, ma come scrive oggi il quotidiano russo Rossiskaia gazeta, «è sufficiente osservare da più vicino la situazione nel mondo per constatare il gap, potenzialmente pericoloso, tra i profitti delle imprese e la vita quotidiana delle popolazioni».
L’abisso che si è aperto tra ricchi e poveri, dove è precipitata buona parte della classe media occidentale, è frutto di un nuovo cortocircuito del capitalismo: le imprese uscite dalla selezione darwiniana della crisi producono sempre più benefits e ci si aspetta un nuovo anno di abbondanza nel mercato mondiale dei titoli; allo stesso tempo il tasso di disoccupazione sale e i redditi della gente, quando va bene, sono fermi.
Il rapporto “Global Employment Trends 2014: The risk of a jobless recovery” pubblicato alla vigilia del Wef di Davos dall’International labour organization (Ilo) indica chiaramente che questa moderata crescita economica è ornai disaccoppiata dall’occupazione e che nella maggioranza dei Paesi il lavoro non cresce.
Ma c’è anche un altro disaccoppiamento: quello del business globalizzato dalla responsabilità sociale di impresa e addirittura dal “patriottismo” economico (e in Italia, con buona pace di Confindustria, gli esempi non mancano). Le grandi imprese hanno conservato i loro soldi e fatto incetta di azioni, invece di investire nel potenziale industriale e nella creazione di nuovi posti di lavoro, spesso trincerandosi dietro la debole domanda nazionale e mondiale. Inoltre le imprese lamentano di non avere nessuna certezza sulla comparsa di nuove fonti di domanda o future politiche statali, per esempio le riforme del settore finanziario promesse e mai fatte.
L’aumento dei guadagni e delle liquidità sui mercati azionari, e non nell’economia reale, aumenta anche il rischio di veder nuovamente gonfiare “bolle finanziarie” in borsa e nel mercato delle case, ma questo nuove fiorire della rendita speculativa a vantaggio dei soliti pochi noti allontana ulteriormente le prospettive di creare nuovi posti di lavoro.
Il capitalismo finanziario è ormai un grosso e satollo gatto che si morde la coda mentre intorno aumenta la schiera di topi sempre più magri e disperati. Quando va bene aumenta il lavoro nero ed informale, che è ormai dilagante nei Paesi emergenti, mentre dappertutto il miglioramento della qualità della vita rallenta e sempre meno persone riescono a uscire dalla condizione di “lavoratori poveri”. Anche in Cina, India e Brasile, dove la scala mobile sociale sembrava rapida e inarrestabile.
La crescente scissione tra capitale e lavoro inquieterebbe anche il fantasma di Karl Marx: nella maggioranza dei Paesi i lavoratori ricevono una parte sempre più ridotta del reddito nazionale e, ancora una volta con buona pace di Confindustria, di Marchionne e della stragrande maggioranza dei media e della politica italiani, guadagnano meno anche se la produttività aumenta.
La maggior parte del reddito è destinato a produrre rendita finanziaria ed è questo il vero problema L’ineguaglianza è ormai diventata una peste economica che genera basse entrate per la maggioranza delle famiglie, restringendo la tanta invocata ripresa dei consumi e rallentando la crescita economica. Uno stallo neoliberista che sembra senza sbocco perché è il punto finale dell’ideologia neoconservatrice.
Intanto, l’insoddisfazione montante all’interno delle società, in particolare di quelle ormai convertite al consumismo compulsivo di massa, sta creando una diffusa instabilità sociale e un sentimento di ingiustizia che produce proteste che non sono più di classe o di rivendicazione di diritti, ma spesso di chi si sente escluso dal banchetto al quale era seduto a tavola fino a poco tempo fa. Lo sa bene anche un moderato pragmatico come Barack Obama che ha definito l’ineguaglianza il «problema centrale della nostra epoca». Ma sembra non capirlo più quel che resta dell’imbarazzante sinistra italiana, ormai incapace di fare un’analisi economico/sociale e persa dietro leggi elettorali e primarie.
Eppure la ricetta per rilanciare la stessa economia di mercato che arriva da Davos, e non dalla Comune francese, passa dall’aumento della domanda di prodotti e servizi, dallo stimolo della crescita di nuove imprese che si preparino alla rivoluzione tecnologica che cambierà rapidamente economia e lavori, e dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Questo implica un allontanamento dalle ricette neoliberiste e dall’austerità di bilancio, passa da un nuovo intervento/controllo dello Stato nell’economia che metta al centro il benessere delle persone (e dunque anche l’ambiente) e non i guadagni stratosferici dei ricchi, comporta l’orientamento dei frutti della crescita economica a profitto dei lavoratori, l’aumento dei loro stipendi, la diminuzione della disoccupazione… cioè una politica “socialdemocratica” di redistribuzione della ricchezza che metta mano all’ingiustizia che impedisce il progresso.
Solo salari decenti possono produrre consumi decenti (magari di qualità, e guidati per essere ambientalmente sostenibili) e solo il loro adeguamento al livello di produttività può risolvere il gap che ha avvelenato l’economia. Non è un caso se l’aumento del salario minimo da tabù del neo-liberismo sta diventando cosa di cui si discute nelle patrie del neoliberismo: dagli Usa e la Gran Bretagna dal governo liberal-conservatore, con la Grosse Koalition tedesca che lo ha messo come punto principale del suo programma.
Il mondo sembra arrivato al punto di rottura e scontro: è urgente concentrare gli sforzi sull’economia produttiva se si vuole davvero superare l’abisso di ineguaglianza creata dall’economia virtuale della finanziarizzazione: bisogna investire nelle persone, nell’aumento della capacità professionali, nel lavoro e nella ricerca. Se il pregiudizio ideologico continuerà ad avere la meglio, se i partiti che hanno sostenuto o si sono fatti stregare dal pensiero unico che ci ha portato a questa ingiustizia planetaria continueranno su questa strada, se la crisi del lavoro continuerà ad emarginare sempre più giovani e quindi lo stesso mercato del lavoro, lo stesso Wef dice che si potrà fare una croce sulla speranza di una crescita (o meglio di uno sviluppo) “stabile”, perché il successo del neoliberismo ha bisogno di shock ricorrenti. Ma essendo, fuori dalla nostra Italia ormai incapace di analisi politica, chiaro che questo è il meccanismo perfetto che produce crisi e aumenta la ricchezza di pochi: i disordini sociali sono destinati a diventare molto più profondi e, senza un attore sociale collettivo, politico e globale, rischiano di trasformarsi in un arretramento dei diritti e delle libertà.