Le proposte di Legambiente alla commissione Difesa
Servitù militari, ambiente e salute: gli ambientalisti portano i conflitti al Senato
Dal Salto di Quirra all’Alta Murgia, da Vicenza al Friuli, inquinamento e consumo di suolo
[4 Giugno 2014]
Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente, e Antonio Nicoletti, responsabile aree protette e biodiversità del Cigno Verde, sono stati ascoltati in Commissione difesa della Camera nell’ambito di una indagine conoscitiva sulle servitù militari. Legambiente è stata l’unica grande associazione ambientalista ad essere stata audita e Zampetti e Nicoletti hanno illustrato per punti le questioni centrali, evidenziando le diverse situazioni in giro per l’Italia dove servitù militari, ambiente e territorio entrano in conflitto.
Nella nota depositata dagli ambientalisti si legge: «Il tema della servitù militari nel nostro Paese, è prioritario per la nostra associazione, per diversi motivi, a partire dall’interazione che ha con l’ambiente e il territorio. Un tema che vede in Italia tante situazioni da nord a sud che dimostrano come oggi sia più che mai urgente un intervento, oltre che conoscitivo, concreto ed efficace per una rapida soluzione a problemi estremamente rilevanti per la sicurezza, la tutela e lo sviluppo delle comunità che ospitano tali attività».
Il primo tema posto da Legambiente alla Commissione è quello delle servitù militari in aree parco e nei siti della rete Natura 2000. Nicoletti ha sottolineato che «le esercitazioni militari, anche quelle a fuoco, si susseguono oramai da tempo nelle aree naturali protette e nei siti della rete Natura 2000, e interessano indistintamente tutte le regioni (…) e rappresentano una reale minaccia per l’ambiente e la tutela dei nostri ecosistemi già messi a dura prova da pratiche e usi del territorio ancora inadeguati». Secondo gli ambientalisti queste attività «Violano la legge 394/91 sulle aree protette e la direttiva Habitat 92/43 CEE, e sono svolte, per quanto a nostra conoscenza, in assenza di autorizzazione da parte dei soggetti gestori delle stesse: in assenza di studio/valutazione di incidenza o VIA viene svolta da parte dell’esercito, e senza nessuna informazione preventiva per gli Enti gestori delle aree protette, senza chiedere autorizzazioni che vengono bypassate utilizzando e abusando il ricorso al segreto militare che rivestono queste attività. Nelle aree protette, com’è noto, è vietato introdurre armi e ovviamente sparare ed anche il sorvolo deve essere autorizzato, ma tutto questo non sembra essere un ostacolo per l’esercito che svolge le sue esercitazioni, anche quelle a fuoco, senza tenere conto dei cicli biologici, della presenza di fauna protetta e di ogni altra necessità legata alla conservazione della biodiversità».
Legambiente aveva sottoposto agli ex ministri dell’ambiente Andrea Orlando e della difesa Mauro, la proposta di istituire un Tavolo tecnico congiunto per avviare un percorso per riordinare e ridurre le attuali servitù militari che gravano sulle aree protette e nei siti della rete Natura 2000, ma m non ha ricevuto nessuna risposta.
Se il Parco dell’alta Murgia è il caso più noto, non è certo l’unica area protetta coinvolta da attività militari, tra le altre ci sono il Poligono militare di Torre Veneri (Lecce) sito di importanza comunitaria (Sic), l’altro Sic di “Isola Rossa e Capo Teulada”, il poligono militare Usa di Drasy (Agrigento), a ridosso dell’istituenda riserva naturale orientata di Punta bianca e scoglio Patella, dove vengono eseguite esercitazioni con artiglieria pesante e carri armati. Legambiente ha chiesto che «si ponga fine allo svolgimento di queste attività che nulla hanno a che fare con le finalità di un’area protetta, ma rappresentano un anacronistico e pericoloso utilizzo del nostro territorio in barba a leggi e regolamenti nazionali e direttive europee e internazionali, che nemmeno i Comitati Misti Paritetici tra Forze Armate e le singole Regioni sono stati in grado di garantire, ed ai quali devono essere invitati anche i soggetti gestori delle aree protette».
Il secondo tema è quello delle bonifiche e della restituzione delle aree alle comunità locali, «a questo riguardo – ha detto Zampetti – è significativo l’esempio riguardante l’area di 35mila ettari occupata dal PISQ, il Poligono Interforze del Salto di Quirra in Sardegna, il più importante dell’isola insieme ai poligoni di Capo Teulada e di Capo Frasca».
Il Cigno Verde ha riportato i risultati della Relazione intermedia su Salto di Quirra redatta dal senatore Gian Piero Scanu e approvata il 30 maggio 2012 che parla di «metalli pesanti, rifiuti militari sia a terra che a mare, sostanze tossiche in grandi quantitativi, rifiuti pericolosi tra cui amianto, batterie e materiale elettronico». Gli ambientalisti hanno evidenziato che «questa zona della Sardegna, come le altre sopra menzionate, ha pagato a caro prezzo l’ipoteca del territorio per attività militari e a pagare i danni non è stato solo l’ambiente, ma anche gli abitanti ed i pastori della zona. Particolarmente grave la presenza di Torio riscontrata su 12 campioni di ossa di pastori che pascolavano le greggi presso il Poligono di Quirra. La pericolosa sostanza radioattiva è stata utilizzata fino al 2000 quando gli armamenti che la contenevano sono stati ritirati in quanto ritenuti estremamente tossici. La contaminazione causata dalle attività militari nel poligono ha avuto effetti nefasti anche nelle zone circostanti, come nel caso dell’abitato di Escalaplano dove, specialmente negli anni ottanta, si sono registrati un certo numero di nascite di bambini malformati». Un documento che riporta una grave situazione anche in servitù militari. «Dati a cui però fino ad ora non sono seguite azioni altrettanto efficaci, nonostante la relazione stessa chiedeva nelle conclusioni la chiusura delle aree di tiro di Capo Teulada e Capo Frasca e la riconversione di quella del Salto di Quirra, previa bonifica e risanamento ambientale».
Una situazione d’inquinamento ambientale e pericolosità per la salute delle persone che ha portato Legambiente a chiedere che «avvenga l’immediata moratoria di tutte le attività militari e che venga avviata la bonifica dei terreni e delle aree di mare contaminate. Interventi imprescindibili per una riconversione ad usi civili dell’area di Quirra, fondamentale per un rilancio economico ed occupazionale a beneficio delle popolazioni locali», mentre a livello nazionale «è quanto mai opportuno avviare un processo di bonifica ambientale per tutte le aree militari contaminate della Sardegna ma anche nel resto d’Italia, quali ad esempio le aree militari all’interno dei siti contaminati di interesse nazionale o reginale, come Taranto o La Maddalena e gli altri presenti nelle diverse regioni. Anche attraverso un concreto impegno del governo per un adeguato finanziamento di queste attività».
Gli ambientalisti hanno approfittato dell’audizione per sottolineare anche il problema dei numerosi siti contaminati dai vecchi ordigni provenienti dalla seconda guerra mondiale: «Oltre 30mila ordigni inabissati nel sud del mare adriatico, di cui 10mila solo nel porto di Molfetta e di fronte Torre Gavetone, a nord di Bari. Laboratori e depositi di armi chimiche della Chemical City nei boschi della Tuscia in provincia di Viterbo e l’industria bellica nella Valle del Sacco a Colleferro (Rm), nata 100 anni fa per fornire tecnologie e sostanze di supporto agli armamenti. Sostanze altamente inquinanti derivanti prevalentemente dalla pesante eredità bellica del periodo fascista, che continuano a minacciare l’ambiente e la salute delle popolazioni locali».
Il terzo punto è la convivenza con le basi militari, come nel caso della settima base statunitense inaugurata a Vicenza nel 2012 che insiste su un’area di 64 ettari lungo le rive del Bacchiglione occupando l’ultimo polmone verde a Nord della città, a tre km dalla Basilica Palladiana su una delle più importanti falde di acqua potabile del Nord Italia. «La base –hanno sottolineato Zampetti e Nicoletti – è sta costruita, nonostante l’opposizione di tanti rappresentanti della società civile, associazioni e comitati, tra cui Legambiente, e soprattutto in deroga a molte delle normative urbanistiche nazionali e locali (non è stata prevista la VIA, il rispetto della legge Galasso o delle Raccomandazioni della Valutazione di incidenza ambientale (V.INC.A.)».
Le conseguenze temute si sono puntualmente verificate: «La base ha infatti interrotto e reso non più funzionale la rete di drenaggi del vecchio aeroporto che manteneva l’area asciutta anche in caso di pioggia (la falda è a 50cm sotto il piano campagna) mentre i 3.860 pali da 60cm di diametro e oltre 20 m di lunghezza infissi lungo un fronte di 580 m hanno creato una barriera al deflusso dell’acqua di falda verso il fiume Bacchiglione con un incremento del rischio idraulico e di allagamento. Infatti oggi con due giorni di pioggia le aree circostanti si trasformano in paludi». Inoltre 16.000 militari e civili americani in più in una città di poco più che 100.000 abitanti hanno provocato un incremento del traffico del 10% e si prevede la creazione di entrate ad hoc con tangenziali, derivazioni ed uscite di emergenza consumando suolo e creando ulteriore inquinamento. Gli ambientalisti hanno fatto notare che «anche le compensazioni ambientali inizialmente previste e concordate con la popolazione, tra cui la creazione di un parco, non stanno arrivando e i fondi inizialmente destinati a questo sono stati utilizzati per la bonifica bellica di alcuni ordigni ritrovati nell’area. Inoltre la Valutazione di incidenza prevedeva un sistema di monitoraggio e sorveglianza per valutare gli effetti dell’attività della base sull’ambiente circostante, ma fino ad oggi di queste misure non si ha notizia».
L’ultimo tema posto alla Commissione difesa della Camera da Legambiente è quello delle aree militari inutilizzate, partendo dall’esperienza in Friuli Venezia Giulia dove, a 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino, restano le macerie di quella che doveva essere la “fortezza” per difendere l’Italia dall’avanzata del nemico:«400 beni demaniali inutilizzati e per lo più abbandonati al degrado – dicono gli ambientalisti – vecchie caserme, polveriere, poligoni, postazioni dei battaglioni d’arresto, alloggi per i militari. Tutto questo attende una riconversione. Gli spazi possono diventare un’opportunità anche per contenere il consumo di suolo, in linea con le indicazioni europee per lo stop entro il 2050».
Fortunatamente però gli esempi virtuosi di recupero non mancano e per Legambiente bisogna ripartire da ’esperienze come quella di Spilimbergo, dove l’ex caserma De Gasperi è diventata un parco fotovoltaico di 17 ettari, con 40.800 moduli per dieci megawatt di potenza complessiva, o di San Vito al Tagliamento, dove al posto della caserma nascerà il nuovo carcere. Oppure da Cormons, dove è in corso la demolizione della caserma e presto ci sarà parco urbano dove c’era un’area recintata e inaccessibile.
Il Cigno Verde propone che «gli spazi occupati oggi da aree militari dismesse devono essere dedicati anche ad altre funzioni dello Stato, come nel caso di Pordenone dove ci sono due caserme abbandonate per un’area di diversi ettari, e intanto si continuano a richiedere aree per il nuovo tribunale (competenza del ministero della Giustizia), per l’archivio (ministero dei Beni Culturali) e per la prefettura (ministero dell’Interno), senza considerare il recupero delle aree militari dismesse (ministero della Difesa). Su questo è necessario quindi un maggior coordinamento tra i diversi soggetti dello Stato competenti. Un ruolo centrale lo può giocare il CoMiPar, il Comitato paritetico, trasformandosi dal luogo di controllo delle attività militari a quello in cui si discutono e si pianificano le politiche di riconversione per la creazione di infrastrutture di servizi in sostituzione di quelle militari, scongiurando il rischio di speculazioni edilizie ed urbanistiche a discapito delle comunità che le ospitano».
In conclusione, per Legambiente «è prioritario rivedere con urgenza la presenza delle servitù militari, a partire dalle aree protette e in quelle a maggior pregio ambientale, avviare approfondite indagini per la tutela dell’ambiente e della salute e attuare gli interventi di bonifica necessari a mettere la parola fine ad una pesante eredità del passato che costituisce ancora oggi un grave rischio per l’ambiente e le popolazioni che vivono in queste zone».