E se fallissero i negoziati sul clima di Parigi? Il piano B del MIT
Un'altra lettura del rapporto Ipcc: è troppo tardi per fermare il global warming con l'Onu?
[1 Agosto 2014]
«I negoziati delle Nazioni Unite non stanno giungendo ad alcuna conclusione e le emissioni di gas serra stanno aumentando vertiginosamente. È tempo di andare avanti». Kevin Bullis, sulla MIT Technology Rewiew, afferma quello che il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e la segretaria esecutiva dell’United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc), Christiana Figueres, hanno sempre escluso: occorre un “Piano B”, una tesi respinta come catastrofica anche da molti scienziati e vista con terrore dalle associazioni ambientaliste.
Bullis, che è senior editor per l’energia della rivista del celebre Mit (il Massachusetts Institute of Technology, cui venne commissionato l’ormai mitico Rapporto sui limiti della crescita del Club di Roma, pubblicato nel 1972), ricorda che «nel 2007, giusto prima di accettare il Premio Nobel per conto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), Rajendra Pachauri, il leader dell’organizzazione, aveva dichiarato che il mondo stava per esaurire il tempo a disposizione per prevenire un catastrofico riscaldamento globale. “Se non interverremo entro il 2012 sarà troppo tardi”, aveva detto al New York Times. “Quello che faremo nei prossimi due o tre anni determinerà il nostro futuro. Questo è un momento decisivo”».
Ad aprile di quest’anno l’Ipcc ha pubblicato il suo nuovo attesissimo rapporto ma le novità rispetto a quanto aveva detto Pachauri nel 2007 e alle scadenze che aveva dato sono preoccupanti: «Non vi è ancora alcun segno di quell’azione globale che Pachauri e altri avevano disperatamente auspicato – scrive Bullis – Nel 2007, l’IPCC aveva richiesto una riduzione del livello di emissioni entro il 2015, ma il mondo sta emettendo gas serra a un ritmo senza precedenti. Persino adesso, Pachauri ed alcuni capi dell’Ipcc rimangono ottimisti, dicendo che si può ancora evitare un catastrofico cambiamento climatico “agendo molto presto”. È però sufficiente esaminare il nuovo rapporto dell’Ipcc per scoprire uno scenario molto meno speranzoso».
La MIT Technology Rewiew fa parlare uno dei principali autori del rapporto Ipcc, David Victor, direttore del Laboratory on International Law and Regulation dell’Università della California – San Diego, che sottolinea: «Nel complesso, il rapporto ci mostra come l’unico modo per arrestare il cambiamento climatico sia quello di supporre che i governi compiranno un certo numero di sforzi eroici”» Quando però «si considera la realtà politica – osserva un altro dei più noti autori del rapporto Ipcc, Rbert Stavins – allora si parla più dell’impossibilità di attenersi a quei 2 °C».
Secondo Bullis, il rapporto arriva, probabilmente senza volerlo, a un’altra conclusione: «Il nuovo rapporto dell’Ipcc trae le ovvie conclusioni, dichiarando che i risultati ottenuti sono stati molto scarsi. Il traguardo di un trattato globale e integrale continua a essere messo da parte» Anche se raggiungere un accordo tra 198 Paesi è molto difficile, Bullis contesta anche «un altro problema, l’eccessiva attenzione delle Nazioni Unite alla limitazione delle emissioni. I governi non sanno quanto costerà rispettare questi limiti perché, spesso, non è chiaro quanto costerà l’implementazione di tecnologie a basse emissioni di anidride carbonica. I regolatori non vogliono coinvolgere i propri governi in trattati i cui effetti economici sono imprevedibili. Oltretutto, non tutti i governi sono in grado di applicare e far rispettare queste norme. Persino paesi con notevoli poteri di regolamentazione faticherebbero a monitorare e gestire le proprie emissioni complessive di anidride carbonica».
Ma anche Bullis è costretto ad ammettere che «non esiste un’alternativa semplice al processo adottato dalle Nazioni Unite». Per questo lancia (o rilancia) una tesi che sembra una via di mezzo tra quella cinese sostenuta dai Paesi in via di sviluppo e l’ondivago virtuosismo climatico dell’Unione europea: «Per avere almeno qualche possibilità di essere adottata e sortire qualche effetto, una normativa ambientale internazionale dovrà probabilmente partire da un gruppo più ristretto di Paesi e concentrarsi su singole industrie o settori economici. Queste norme non saranno sufficienti a stabilizzare per conto loro i livelli di gas serra, ma potrebbero contribuire a rallentare il global warming nel breve termine. Una collaborazione fra Paesi potrebbe inoltre gettare le fondamenta per norme più ambiziose, una volta ridotto il costo delle tecnologie a basse emissioni di anidride carbonica».
Un approccio che si presenta dunque come realistico, e che porta in dote non poche ragioni, ma che visto da vicino sembra tanto l’ammissione di una sconfitta, scegliendo di concentrarsi su obiettivi minori come la sostituzione dei forni convenzionali (che emettono fuliggine) nei Paesi in via di sviluppo con forni da cucina più ecologici. E se da una parte si chiede sensatamente «il raddoppio degli sforzi da parte di Usa e Cina, che possono permettersi di spendere denaro nella ricerca e sviluppo», dall’altra si ricorda positivamente come entrambi gli Stati stiano «collaborando alla realizzazione di centrali nucleari avanzate»; un’alternativa tecnologica che farebbe rabbrividire gli ambientalisti e molti scienziati.
Se il tentativo dell’Onu dovesse miseramente fallire nel 2015, a Parigi, un piano B dovrebbe indubbiamente essere pronto per la fase d’attuazione. Concedersi obiettivi pressoché irrilevanti (o insensati) sarebbe l’equivalente mascherato di gettare la spugna. Meglio sarebbe, piuttosto, confidarci che il riscaldamento globale è ormai impossibile da frenare, e concentrarci su come resistere al cambiamento – ossia, puntare tutto sull’opzione resilienza, sul tavolo già da anni – o concederci lo spazio per un’alternativa alla riduzione delle emissione, ma altrettanto (se non più) forte: porre un tetto all’utilizzo delle risorse, anziché all’emissione di gas serra. Si tratta anche in questo caso di un’opzione di cui si discute – infruttuosamente – da decenni, ma che avrebbe il pregio di essere abbastanza ambiziosa da poter provare a conquistare l’immaginario politico, svicolando al contempo da molte delle critiche mosse da Bullis alla strategia oggi adottata dall’Onu.
In mancanza di una strategia vincente già definita in modo condiviso, è però certo che stare immobili ad aspettare che la tempesta passi è controproducente, perché ci coglierebbe in pieno. E impreparati. I “Paesi virtuosi”, in testa ai quali rimane ancora l’Unione europea, devono avere il coraggio di tracciare la strada, guadagnando tra l’altro determinanti vantaggi economicamente competitivi nel tragitto. Una considerazione condivisa anche dal MIT, che comunque precisa come le azioni proposte nell’articolo di Bullis «non devono sostituirsi al processo intrapreso dalle Nazioni Unite – possono facilmente avvenire al suo fianco».
La conclusione è che «i soli finanziamenti in tecnologie e la definizione di norme frammentarie non limiteranno il global warming […] L’approccio delle Nazioni Unite non sta funzionando. È tempo di riconoscerlo e andare avanti». Ma senza rinunciare ad agire.
di Umberto Mazzantini e Luca Aterini