In Sicilia, Sardegna e costa Adriatica il record del cemento
Italia, cemento coast-to coast. Wwf: «25 anni di trasformazione delle amate sponde»
Il Panda: «Moratoria sulle nuove edificazioni e gestione unitaria degli habitat costieri»
[6 Agosto 2014]
Il Dossier “Cemento coast-to coast: 25 anni di natura cancellata dalle più pregiate coste italiane”, presentato oggi dal Wwf parla della «“Grande Bellezza” che confina col mare in 25 anni cancellata in più parti dal cemento» e, con schede sintetiche e mettendo a confronto foto satellitari, restituisce, l’immagine di un profilo fragile e bellissimo che «Pur mantenendo angoli suggestivi e intatti» è «Martoriato da tante ferite».
Il dossier analizza l’evoluzione della situazione delle regioni costiere, mettendo a confronto i dati di oggi con quelli di 25 anni fa, con il supporto di immagini tratte da Google Earth e il Wwf dice che «Il quadro d’insieme è una vera e propria trasformazione metropolitana delle coste italiane». L’associazione ambientalista segnala «312 macro attività umane che hanno sottratto suolo naturale lungo le nostre ‘amate sponde’ per far spuntare dal 1988 a oggi villaggi, residence, centri commerciali, porti, autostrade, dighe e barriere che hanno alterato che, profilo e il paesaggio del nostro paese facendo perdere biodiversità e patrimonio naturale. Un pezzo strutturale della nostra economia è stato così mangiato dal cemento, a scapito di un’offerta turistica balneare (soprattutto in aree di qualità) che coinvolge migliaia di aziende». Le “case history”, illustrate in una fotogallery regione per regione, vanno dalla cava del 2003 della Baia di Sistiana in Friuli, occupata poi da un mega villaggio turistico, alla Darsena di Castellamare di Stabia in Campania, dall’urbanizzazione della foce del Simeto in Abruzzo al porto turistico ampliato e villaggio turistico sulla foce del Basento in Basilicata.
Le regioni con le coste più cementificate sono Sicilia, Sardegna, con 95 e 91 casi rispettivamente di nuove aree costiere invaso da cemento. In Sardegna, dopo il Piano paesistico dell’ex governatore di centro-sinistra Renato Soru, che prometteva di correre ai ripari dalla cementificazione selvaggia delle coste, nel 2009 sono stati annullati i vincoli aprendo a nuove edificazioni all’interno dei 300 metri dal mare. Il dossier fa gli esempi di Cardedu, «Con due villaggi turistici e un’urbanizzazione a schiera costruiti in barba al vincolo paesaggistico». In Sicilia a salvarsi sono solo le aree protette e qui il Wwf fa l’esempio di Campofelice di Roccella «Dove sorge una vasta area edificata in area vincolata».
Ma è soprattutto la costa adriatica, la più urbanizzata del Mediterraneo, che, dicono al Panda «Rappresenta il 17% delle coste italiane ma dove meno del 30% del waterfront è libero da urbanizzazioni». Eppure, negli anni ’50 quasi 1.000 km sui totali 1.472 del fronte adriatico erano privi di costruzioni ed altre strutture accessorie, un paesaggio costiero oggi inimmaginabile. «Se si escludono le Marche (con solamente il 21% di costa libera) – ricorda il Wwf – il Friuli era quasi alla metà, mentre Veneto, Emilia e Abruzzo sfioravano il 70%. Per Molise e Puglia la costa era per oltre l’80% totalmente libera da urbanizzazione. Tra gli anni ’50 e il 2001 la popolazione dei comuni costieri (CM) è aumentata di quasi 770.000 abitanti (poco meno del 28%), mentre, nello stesso periodo, l’aumento di popolazione in Italia è stato del 20%. In particolare in Abruzzo, Molise e Puglia le coperture urbanizzate aumentano da 8 a 10 volte, contro le 5 volte dell’Emilia o le tre volte del Veneto (sempre tenendo conto della presenza di lagune costiere in quest’ultimo caso). Gli interventi di urbanizzazione effettuati sulla costa adriatica italiana negli ultimi 50 anni denunciano una evidente carenza di programmazione e delineano un quadro piuttosto pessimistico in termini di inversione o controllo del fenomeno. I dati più rilevanti che emergono dalla ricerca sono quelli relativi alle dinamiche di crescita di circa il 400% della densità di urbanizzazione nei comuni costieri, ma in particolare del 300% nella fascia costiera dove negli anni ’50 circa i due terzi dei 1472 km della linea di costa fossero liberi da costruzioni e altre strutture, mentre questo valore si riduce drasticamente a meno di un terzo dopo il 2000 (466 km), con una velocità media di avanzamento delle urbanizzazioni stupefacente, pari a circa 10 chilometri l’anno (poco meno di 30 m al giorno)».
Il cemento non risparmia nemmeno le aree costiere che dovrebbero essere protette: nei 78 Sic o ZPs, inclusi in Rete Natura 2000 e tutelati dalle direttive Ue habitat e uccelli, il Wwf ha censito 120 interventi “antropici”, compresi darsene e villaggi e conferma quanto già emerso da altri studi: «Dei circa 8.000 chilometri di coste italiane quasi il 10% sono artificiali e alterate dalla presenza di infrastrutture pesanti come porti, strutture edilizie, commerciali ed industriali che rispecchiano l’intensa urbanizzazione di questi territori in continuo aumento e dove si concentra il 30% della popolazione».
Il Panda è preoccupato: «Finora le aree protette costiere si sono rivelate ottimi strumenti per contenere questa pressione e per valorizzare correttamente i territori, ma si tratta di ambiti limitati in un sistema disordinato e non gestito. E a peggiorare le cose, il fatto che di tanta meraviglia non esista un ‘custode’ unico visto che ad oggi nessuno sa chi realmente governi le nostre coste: la gestione è “condivisa” a livelli molto diversi (Stato, Regioni, Enti locali) con una frammentazione di competenze che ha portato spesso a sovrapposizioni, inefficienze, illegalità, e complicazioni gestionali e di controllo. Dalla legge sulla “Protezione delle bellezze naturali’ del 1939, all’articolo 9 della Costituzione che tutela il paesaggio, passando per la Convenzione Ramsar sulle zone umide del 1971, senza dimenticare la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo e la Convenzione sulla diversità biologica di Rio del 1992, non mancano certo le leggi a tutela delle coste ma nonostante questo non si sa chi le governi».
Donatella Bianchi, Presidente del Wwf Italia, evidenzia che «in un quarto di secolo abbiamo cancellato e imprigionato, coprendole di cemento, l’incomparabile bellezza delle nostre dune sabbiose, compromesso irrimediabilmente la macchia mediterranea, i boschi costieri e le aree di riposo e ristoro, come stagni costieri e foci di fiumi, per migratori Non solo bellezza che scompare o natura cancellata, ma una ricchezza economica che sperperiamo e che solo una visione miope e scellerata può consentire. L’attenzione e la cura sono ancora più urgenti, sono scelte obbligate, se pensiamo a quanto impatto avrà il turismo nei prossimi anni sulle nostre coste: 312 milioni di presenze stimate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente nelle sole zone costiere del Mediterraneo. Gestione integrata, uso sostenibile e attento, rinaturalizzazione dovranno essere le parole chiave del futuro, magari investendo in un lavoro di recupero e riqualificazione delle nostre coste, speculare a quello invocato da Renzo Piano per le aree periferiche delle grandi città. Se si riuscirà a fare tutto questo tra 10 anni la fotografia dallo spazio sarà meno inclemente e potremo dire di essere riusciti a salvare la nostra ‘Grande Bellezza’ che confina col mare».
Gaetano Benedetto, direttore politiche ambientali del Wwf Italia, conclude: «Si pensa che lo scempio delle coste sia legato al passato, agli anni del boom delle seconde case e della grande speculazione edilizia o del raddoppio delle concessioni demaniali del 2000: purtroppo non è così perché l’invasione del cemento non si è mai fermata. Il Wwf chiede di invertire la tendenza alla cementificazione attraverso due semplici cose: estendere i vincoli paesaggistici di tutela dai 300 metri ai 1000 metri di battigia e applicare una moratoria di tutte le edificazioni lungo la fascia costiera fino all’applicazione dei nuovi piani paesaggistici, che tra l’altro, dovrebbero essere già vigenti. Non si tratta di un problema solo ambientale: salvare le coste dal cemento vuol dire salvare un pezzo strutturale della nostra economia».