Cosa non dice il pacchetto Sblocca Italia del governo Renzi
Il documento manca di molti elementi. In primis, una vera politica industriale
[1 Settembre 2014]
Il “Piano Straordinario per il rilancio internazionale dell’Italia”, approvato dal governo nell’ambito del pacchetto Sblocca Italia, non è di facile valutazione. Quello che c’è scritto (o almeno quanto se ne può ricavare dalle slides apparse sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico) è talmente pieno di buon senso e di buone ragioni che nessuno si sognerebbe di contestarne la validità e l’utilità. Dare subito benzina al motore delle PMI esportatrici, l’unico che ci ha tenuto in qualche modo a galla, è – senz’ombra di dubbio – ciò che va fatto.
Le perplessità e le preoccupazioni stanno nel non detto.
Innanzi tutto il non detto riguarda le modalità di realizzazione e soprattutto il chi dovrà realizzare le buone intenzioni del governo. Un ruolo centrale pare affidato all’ICE, l’ente che solo tre anni fa’ era stato soppresso, poi “resuscitato”, ma della cui ri-abolizione si era parlato ancora cinque mesi fa’ nell’ambito della spending review… notiamo (con qualche brivido) che l’ICE dovrebbe far fronte ai nuovi compiti con una contemporanea riduzione di personale del 30%!
Vi sono poi le ottime intenzioni di recupero del ritardo che abbiamo rispetto ad altri Pesi europei in materia di attrazione degli investimenti esteri, a maggior ragione ora che – si sottolinea con orgoglio – siamo infine “rientrati nelle prime 25 posizioni della classifica del Confidence Index degli investitori internazionali”. Peccato che la struttura che ci dovrebbe permettere di competere, quello “one-stop-shop” di cui si legge nella letteratura e nella prassi internazionale da almeno trent’anni, sia immaginata come un semplice accorpamento di servizi (finora non così entusiasmanti, visti i risultati) di ICE e di Invitalia, col sostegno di un “agile network di esperti nelle principali piazze finanziarie internazionali”. I brividi aumentano…
Colpisce poi che l’impostazione rimanga molto tradizionale: da un lato la promozione delle esportazioni, dall’altra l’attrazione degli investimenti esteri. Le politiche sembrano non riuscire a fare i conti con le nuove forme d’internazionalizzazione, quelle cosiddette “intermedie”, fatte di accordi, partnership, joint ventures su varie fasi del processo produttivo, ma anche nel marketing e nella ricerca. Sono le forme che permettono alle imprese italiane di essere parte delle nuove catene globali del lavoro e che contano non solo in termini di fatturato, ma anche di relazioni e conoscenza di cui si può giovare l’intero sistema.
Mancano poi le dimensioni non economiche dell’internazionalizzazione: le reti della ricerca, la mobilità degli studenti, la promozione della lingua e della cultura. Si riconferma insomma una visione della globalizzazione tutta economica e tutta centrata sull’impresa, in contrasto con quanto fanno i grandi paesi industrializzati.
Manca il legame col turismo, straordinario veicolo di promozione non solo delle bellezze di un Paese ma anche dei suoi prodotti. Basti pensare a quanto del Made in Italy viene oggi acquistato, ad esempio, dai cinesi, non in patria, ma qui da noi, come parte di un’esperienza di viaggio.
Manca infine una più ampia strategia di politica industriale. Il documento sembra risentire della frastagliata gamma di influenze intellettuali che echeggiano nel pragmatismo renziano, tra cui in particolare quello di coloro che, con inguaribile ottimismo sulla solidità del nostro sistema manifatturiero, scommettono sull’effetto salvifico della “liberazione” di tutte le potenzialità delle PMI. La Fondazione Edison ed il suo leader, Marco Fortis (ascoltato consigliere del premier), ne rappresentano il volto “alto” dell’elaborazione intellettuale più sofisticata e stimolante. Ma attira molti, e in ambienti assai disparati, la tentazione di vedere in ciò la scorciatoia per sostenere la ripresa – senza dover parlare di questioni assai più scabrose (multinazionali, Fiat, Finmeccanica etc). E’ quello che pensano anche a Palazzo Chigi? E’ questa la nostra strategia di politica industriale?