Dentro l’architettura delle scelte: inchiesta all’interno del paternalismo libertario

Nudge, la spinta gentile tirata per la giacchetta

Un’innovativa rivoluzione sperimentale rischia di passare per l’ennesima scienza dei miracoli

Le politiche ispirate al nudge (tradotto in italiano con ‘spinta gentile’) e alla filosofia politica del paternalismo libertario hanno guadagnato negli anni sempre maggiore attenzione, rappresentando uno strumento a disposizione del policy maker per disegnare e implementare interventi sempre più a misura del cittadino, e per semplificare, in ultima analisi, le condizioni in cui quest’ultimo fa le sue scelte. Quello che è un ottimo attrezzo, tra i tanti della scatola, tuttavia, rischia di trasformarsi in un mantra, a volte perdendo di vista la complessità della realtà, se si trascura l’insegnamento principale del nudge stesso: il metodo sperimentale serve a testare ogni misura di intervento e a valutarne l’efficacia. Il rischio di cedere al principio di auctoritas, un po’ come nel “Nome della Rosa” di Umberto Eco, è forte: si tratta solo di aggiornare, di secolo in secolo, la persona chiamata a svolgere il ruolo di Aristotele.

Un esempio citatissimo a favore del nudge, diventato giustamente un leit motiv all’interno della comunità accademica che dibatte sul tema, è quello della donazione degli organi. Spesso, infatti, viene fatto vedere il grafico seguente, a dimostrazione del fatto che una semplice modifica dell’architettura delle scelte possa produrre drastiche differenze in termini di organi donati e, in ultima analisi, di vite salvate.

Se vi siete mai chiesti, in Italia, cosa dobbiate fare per diventare potenziali donatori di organi, sappiate che la risposta è molto semplice: nulla. Nel nostro Paese, infatti, vale il principio del silenzio assenso (o consenso presunto). Se in vita non si è espressa la volontà di non essere donatore, automaticamente si è considerati donatori. Il problema è che questo principio, regolamentato dall’articolo 23 della Legge 1 dell’aprile 1999, non ha mai trovato attuazione. In Italia, ogni cittadino ha la possibilità – non il dovere – di comunicare attivamente la propria volontà di essere, o non, donatore di organi, tramite una dichiarazione scritta o l’iscrizione ai registri dei donatori. In pratica, vigono il consenso e il dissenso esplicito, con l’ultima parola che spetta ai familiari in caso non sia stata esplicitata alcuna scelta.

E’ plausibile che se il silenzio assenso fosse attuato, le donazioni aumenterebbero? Le vostre possibilità di essere iscritti ai registri dei donatori aumenterebbero? Le scienze comportamentali suggeriscono di sì. A causa dell’umana tendenza a procrastinare le nostre decisioni e rimanere legati allo status quo, i cittadini preferiscono aderire all’opzione di default proposta, piuttosto che esprimere una scelta diversa. Nell’ambito delle donazioni, è più facile indirizzare la scelta a essere donatore se questa è l’opzione pre-impostata.

Per confermare questa ipotesi, John Goldstein ed Eric Johnson hanno mostrato in un citatissimo articolo del 2003 i risultati di un esperimento online. A 161 soggetti è stato chiesto di immaginarsi di trasferirsi in uno stato con tre contesti di scelta differenti per acconsentire a diventare donatore. Nel primo valeva il consenso esplicito, nel secondo il silenzio assenso e nel terzo la condizione era neutrale, cioè si doveva scegliere se essere o meno donatori, senza opzione di scelta pre-impostata. Nel primo scenario, hanno acconsentito a diventare potenziali donatori il 42% dei partecipanti, contro l’82% del secondo e il 79% del terzo. Il risultato di maggior rilevanza dello studio è stato, però, mostrare come la forza del silenzio assenso sia evidente nel confronto tra diversi stati europei. Quelli con il consenso esplicito (Olanda, Germania, Danimarca, Regno Unito) hanno tassi di iscrizione notevolmente più bassi – nell’ordine del 60% – rispetto a quelli dove vige il consenso presunto (Svezia, Austria, Francia, Belgio, Ungheria, Polonia, Portogallo).

Nel loro best seller Nudge, l’economista Richard Thaler e il giurista Cass Sunstein hanno utilizzato questa ricerca per promuovere la necessità di utilizzare i risultati delle scienze comportamentali per progettare politiche pubbliche più efficaci. Nell’ambito specifico delle donazioni d’organi, i due autori hanno suggerito di applicare non tanto il principio del silenzio assenso, il quale porta con sé possibili problemi etici e legislativi sull’autonomia individuale, quanto lo strumento della “scelta attiva”. Durante procedimenti come il rinnovo della patente o del documento d’identità, è sufficiente chiedere al cittadino se intende o meno essere donatore per contrastare la tendenza a procrastinare e spingere gentilmente il cittadino a manifestare la propria volontà. Recentemente, diversi stati negli Stati Uniti, il Regno Unito e la Danimarca hanno modificato le regole in materia di donazione, introducendo la scelta attiva suggerita dalla teoria del nudge.

Su quali evidenze di efficacia i governi hanno basato questi interventi regolamentativi?

I risultati dello studio sopra citato sono stati ottenuti online, attraverso scenari ipotetici, dunque non reali. Sebbene una recente ricerca di Hendrik van Dalen e Kène Henkens abbia replicato il set sperimentale di Goldstein e Johnson, ottenendo risultati simili, l’evidenza di efficacia rimane decisamente limitata, non differendo dagli studi di Aaron Spital, che agli inizi degli anni Novanta promosse l’introduzione della scelta attiva basandosi sui risultati incoraggianti di alcuni sondaggi. E’ sui numeri di queste ricerche, tuttavia, che si basa la proposta di Thaler e Sunstein, ignorando due fondamentali questioni: la necessità di evidenza sperimentale e la complessità del tema delle donazioni.

La prima questione è stata per la prima volta affrontata in un working paper del premio Nobel Alvin Roth e Judd Kessler, pubblicato lo scorso agosto su NBER. I risultati fanno vacillare la fiducia accordata alla teoria del nudge. La scelta attiva, infatti, sembra addirittura far diminuire i tassi di iscrizione, non aumentarli! La ricerca dei due autori si basa su due esperimenti. Il primo è un esperimento naturale – il caso in cui le condizioni di un set sperimentale si creano senza l’intervento di uno sperimentatore. A partire da luglio 2011, lo stato della California ha, infatti, introdotto la scelta attiva attraverso i moduli del Department of Motor Vehicles. Al cittadino californiano ora è domandato: “Desideri registrarti per diventare un donatore d’organi?”, con la doppia opzione di risposta: “Sì, aggiungi il mio nome al registro dei donatori” e “Non desidero al momento iscrivermi”. Confrontando i dati prima e dopo l’introduzione della scelta attiva e utilizzando i tassi di registrazione di altri 26 stati come controllo, si è visto come a partire da luglio 2011 le registrazioni in California siano calate. Attraverso tale modifica del contesto di scelta, si è stimato che si siano persi quasi il 3% di possibili iscritti rispetto alla non modifica della regolamentazione.

Ovviamente, non si può imputare alla sola introduzione della scelta attiva il calo di registrazioni. Per isolare l’effetto causale, i due autori hanno così ideato un particolare esperimento. Nel Computer Lab for Experimental Research dell’Università di Harvard, 368 soggetti hanno avuto l’opportunità di loggarsi al registro dei donatori d’organi e di modificare il proprio status di donatore. Il design dell’esperimento – condotto in laboratorio, ma con conseguenze sulla vita reale dei soggetti – ha permesso la manipolazione di due variabili. La prima era il modo in cui è stato chiesto a ogni soggetto se intendesse diventare donatore, chiedendo di barrare una sola casella disponibile (“Voglio registrarmi al registro dei donatori”), oppure una tra due caselle (“Voglio registrarmi al registro dei donatori” o “Non voglio registrarmi al registro dei donatori”), riproducendo il metodo della scelta attiva. La condizione della casella singola intendeva simulare il principio del consenso esplicito. Nel caso in cui la casella non fosse stata barrata, il soggetto non sarebbe stato inserito nel registro. La seconda variabile consisteva nelle informazioni fornite riguardo la donazione d’organi. In questo caso, ad alcuni soggetti appariva sulla pagina web la scritta “Si stima che un donatore può salvare o migliorare la vita di ben 50 persone donando gli organi e i tessuti”. Ad altri compariva la stessa frase, con l’aggiunta di una lista degli organi donabili, come le cornee, il cuore, i reni, il fegato, i polmoni e altri. L’incrocio di queste due variabili ha, dunque, permesso la creazione di quattro gruppi di trattamento.

I soggetti che hanno mostrato un maggior tasso di registrazione sono stati quelli inseriti nel trattamento contenente il consenso esplicito e la lista degli organi donabili (probabilità del 40% di registrazione a fine studio), facendo meglio, rispettivamente, del binomio “scelta attiva + lista”, “consenso esplicito + non lista”, “scelta attiva + non lista”. In generale, i soggetti sono stati più propensi a iscriversi quando la richiesta era incorniciata sotto forma di consenso esplicito, piuttosto che di scelta attiva tra due opzioni. La differenza tra i due tipi di trattamento è, inoltre, nell’ordine di grandezza della differenza osservata nell’esperimento naturale sui tassi di registrazione in California.

La possibilità di sapere quali fossero i soggetti già iscritti ai registri prima dell’esperimento ha permesso di scoprire due risultati incoraggianti. Fornire una lista degli organi donabili a coloro che inizialmente non erano donatori ha aumentato la probabilità di registrazione. Il 34.9% di non donatori con lista si è iscritto, contro il 22.6% di quelli senza lista. Il risultato più evidente, però, è stato un altro. Fornire agli individui l’opportunità di cambiare il proprio status di donatore aumenta il numero di donatori registrati. I soggetti, infatti, sono ben 22 volte più propensi a iscriversi al registro piuttosto che disiscriversi. Per questo motivo, il titolo dell’articolo cita il motto di Winston Churchill: “Non accettare un ‘No’ come risposta”. Ricordare a distanza di poco tempo ai cittadini la possibilità di iscriversi ai registri può spingerli a modificare la decisione di non iscriversi presa in passato.

Se questo primo esperimento sembra mettere in discussione da un punto di vista sperimentale l’efficacia precedentemente assunta della scelta attiva, quali problemi sono trascurati dalle scienze comportamentali nell’affrontare la complessità del tema delle donazioni?

In primo luogo, le regolamentazioni variano di paese in paese, rendendo impossibile i tentativi di racchiudere in categorie ben precise i sistemi di registrazione. Uno studio condotto nel 2012 da Amanda Rosenblum e colleghi mostra come ogni registro dei donatori abbia le proprie peculiari caratteristiche di iscrizione, tra cui le metodologia di registrazione, l’età minima per l’iscrizione, il ruolo dei familiari e la possibilità di modificare la scelta effettuata. Come è possibile individuare il contributo causale di ognuna di queste caratteristiche?

Qui emerge un secondo problema. Etichette come quelle di “consenso esplicito”, “dissenso esplicito”, “consenso presunto”, “silenzio assenso”, “scelta attiva” (che in inglese è espressa con formule come “mandated choice”, “prompted choice” e “active choice”) spesso mancano nel rappresentare sfumature importanti presenti nei sistemi di regolamentazione. In letteratura, ciò comporta inevitabilmente difficoltà sull’utilizzo dei termini, che si ripercuotono sulla possibilità stessa di replicare correttamente interi set sperimentali. Un esempio è proprio fornito dal working paper analizzato, in quanto l’opzione “consenso esplicito” utilizzata nello studio può sembrare una forma di “scelta attiva”. Quest’ultima è proposta al soggetto, all’interno di un laboratorio, mentre in molti stati, nella vita di tutti i giorni, è il soggetto che deve attivarsi per iscriversi.

Un terzo problema è legato al ruolo di primo piano che è ricoperto dalle decisioni dei familiari di un possibile donatore. In molti paesi, infatti, i familiari possono modificare la scelta del defunto donatore, non acconsentendo l’espianto degli organi. Viceversa, possono acconsentire alla donazione, senza che il defunto abbia in vita espresso il proprio assenso. Alvin Roth e Judd Kessler hanno condotto un sondaggio con 803 soggetti chiedendo se avrebbero acconsentito alla espianto d’organi di un proprio parente nel caso in cui quest’ultimo si fosse iscritto, o no, ai registri tramite il consenso esplicito o la scelta attiva. I risultati mostrano che un familiare è più restio ad acconsentire all’espianto degli organi se il parente defunto ha manifestato la propria volontà di non essere donatore tramite la scelta attiva, piuttosto che non dando il proprio consenso esplicito. Come nell’altro esperimento, dunque, l’introduzione della scelta attiva sembrerebbe comportare risultati peggiori sulle donazioni effettive rispetto al consenso esplicito, influenzando il parere dei familiari.

Infine, un quarto problema sorge sul significato che gli individui attribuiscono al gesto di donare i propri organi. Siamo sicuri che un cittadino attribuisca lo stesso valore nella donazione attraverso sistemi di iscrizione diversa? In questo caso, scelta attiva e consenso esplicito potrebbero comportare esiti simili. Shai Davidai e colleghi, in uno studio del 2012, hanno rilevato come in un contesto di scelta dove vige il consenso presunto, le persone collocano su una scala di valori il gesto della donazione d’organi vicino al far passare davanti qualcuno quando si è in coda e al dedicare parte del proprio tempo per il volontariato. Al contrario, in uno scenario dove vale il consenso esplicito, le persone assegnano al donare gli organi un valore simile a quello che è dato a gesti come donare metà del proprio patrimonio in beneficenza o fare uno sciopero della fame in supporto di una causa.

La letteratura citata, abbondante e complessa, e non contenente conclusioni univoche sull’efficacia di un particolare intervento, non punta certo a concludere che l’immobilità istituzionale sia la risposta: disegnare interventi politici che cerchino di raggiungere un particolare obiettivo non solo è auspicabile, ma è necessario per una società di cittadini consapevoli e correttamente informati. Ciò detto, vale ribadire come non esista una scienza dei miracoli, qualunque sia la forma che assume il miracolo stesso che, di volta in volta, si fa moda nella comunità accademica generando curiosità (legittima) e fiducia (spesso incontrollata). Studiare, analizzare, rendere pubblico un risultato scientifico, senza certezze. Se non quello, appunto, di non averne.

di Carlo Canepa e Luciano Canova

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