L’economia della felicità esiste, e non è quel che sembra
Quella del benessere è una dimensione complessa, ma una definizione appropriata è necessaria per percorrere la via di uno sviluppo sostenibile
[8 Luglio 2013]
A volte, quando mi presento come economista della felicità, la gente ‘fa spallucce’, quando non accenna, addirittura, un mezzo sorriso di scherno divertito. Come è possibile che economia e felicità stiano insieme nella stessa locuzione, tanto più in un periodo di recessione profonda? O peggio ancora: come si può, proprio in un momento di simili difficoltà, nel bel mezzo di una gravissima recessione, parlare a cuor leggero di felicità?
Questo breve articolo è uno spunto di riflessione che serve, soprattutto, a fare chiarezza: quella che viene definita ‘economia della felicità’ è una promettente branca delle scienze sociali che, con metodo scientifico e approccio multidisciplinare, analizza le determinanti anche psicologiche di ciò che chiamiamo ‘benessere’. Lo fa servendosi dei metodi di laboratorio preconizzati da Daniel Kahneman (premio Nobel dell’Economia nel 2002). Lo fa con l’utilizzo anche della tecnologia più moderna, si tratti della possibilità di raccogliere informazioni real-time sullo stato edonico delle persone (con quello che, in gergo, è chiamato Experience Sampling Method e che ha visto in Track Your Happiness il primo esperimento su scala mondiale) o di utilizzare la risonanza magnetica funzionale per studiare quali zone del cervello sono preposte a far scattare, in noi, determinati stati emotivi.
L’economia della felicità, e lo dice bene Kahneman in questo TED talk (è possibile selezionare anche i sottotitoli italiani, per chi non masticasse l’inglese, video in fondo pagina), si assume la responsabilità di utilizzare una parola difficile da definire. Forse, come dice il premio Nobel, si dovrebbe pensare più a quello che è un obiettivo naturalmente correlato all’economia della felicità (e spesso taciuto): la riduzione della sofferenza.
Di fatto, ogni buon economista dovrebbe avere quale obiettivo quello di definire gli interventi più adatti per ridurre le disuguaglianze, alleviare i costi sociali della disoccupazione o della povertà. Stimolare, insomma, uno sviluppo che sia insieme sostenibile e duraturo.
Un conto, dunque, è un approccio scientifico teso a produrre risultati robusti sulle determinanti del benessere soggettivo (che l’Istat ha recentemente riconosciuto come una delle 12 dimensioni fondanti del BES, il Benessere Equo e Sostenibile).
E un altro conto sono invece i tentativi di un approccio, che è quello della psicologia positiva, che si preoccupa di indicare la ricetta per la felicità come irrinunciabile obiettivo di vita. Su questo fronte, sono razionalmente e scientificamente scettico, innanzitutto perché la psicologia positiva non produce analisi quantitative o risultati robusti e confrontabili: indica piuttosto una sorta di ‘menu’ della vita felice. Il che, inevitabilmente, e lo ha sottolineato molto bene Carol Ryff, psicologa della University of Wisconsin, alla Conferenza di Public Happiness recentemente tenutasi a Roma, porta con sé un rischio altrettanto rilevante: la delegittimazione della dimensione della ‘negatività’.
Producendo il mantra del ‘devi essere felice’, la psicologia positiva rischia di sottovalutare gli effetti distorsivi dell’esplicitazione di un obiettivo, la cui scelta, tra l’altro, non può che valere sul piano esclusivamente normativo e stridere con la libertà individuale di ogni essere umano.
La distinzione tra economia della felicità e psicologia positiva è essenziale. E lo è perché nessuno si diverte a fare la Pollyanna di turno che cerca quante volte la parola ‘gioia’ è scritta nella Bibbia, oppure s’incaponisce a indicare il sentiero dorato del buon umore o a imporre ‘abbracci gratis’ per la strada. Questa non è la strada da me scelta e, personalmente, mi trova anche su posizioni fortemente critiche rispetto ad essa.
Il riconoscimento della dimensione del benessere psico-fisico e della sua importanza, piuttosto, oltreché della relazione non lineare tra reddito e felicità, implicano operativamente la possibilità di ridefinire le politiche, micro e macro, di welfare; sottolineano l’opportunità e necessità di rivedere il metro con cui la statistica presenta lo stato socio-economico di un paese; aggiungono una dimensione essenziale per comprendere le delicate sfaccettature che caratterizzano i rapporti tra economia e società.
Nessuno ha l’arroganza di imporre il buon umore a chicchessia: riflettere, invece, su una ridefinizione del concetto di benessere che sia in grado di cogliere meglio la dimensione della complessità: questo il compito di uno scienziato sociale che decide di occuparsi di felicità.