Elezioni in Gran Bretagna, per l’ambiente è meglio Miliband
Ma, a meno di un successo clamoroso dell’Ukip, la leadership climatica britannica resterà forte
[7 Maggio 2015]
Oggi il Regno Unito vota per eleggere il nuovo parlamento, ma nessuno può dire ancora chi sarà il vincitore ed addirittura se ce ne sarà davvero uno. Un voto che avrà anche importanti ricadute non solo sulle politiche sociali e del lavoro, ma anche su quelle energetiche e di lotta al cambiamento climatico.
Per l’ambiente il migliore dei candidati a premier – se si toglie il Green Party, marginale con questo sistema di voto a collegi uninominali – è certamente il leader del partito laburista Ed Miliband, già ottimo ministro dell’energia e dell’ambiente e campione dell’azione climatica nel 2008-2010. Una vittoria del Labour Party potrebbe significare una nuova era progressista per l’energia e le politiche ambientali in Gran Bretagna, che durante il governo di coalizione conservatori-liberaldemocratici del premier uscente David Cameron non solo sono state di fatto “bloccate”, ma hanno avuto una forte virata nuclearista.
I sondaggi per le elezioni in Gran Bretagna danno laburisti e conservatori testa a testa, divisi da un punto percentuale, e tutto dipenderà da i risultati collegio per collegio e dal probabile successo dei nazionalisti di sinistra dello Scottish national party (Snp), che per quanto riguarda energie rinnovabili e ambiente sono ancora più avanti del Labour.
Mentre Cameron sostiene che il suo è stato il governo più verde che ci sia mai stato nel Regno Unito, il programma elettorale del Conservative Party non ha specifici obiettivi climatici ed energetici. Invece i laburisti di Milibrand propongono politiche per ridurre a zero entro il 2030 le emissioni di gas serra provenienti dalla produzione di energia elettrica. A febbraio Miliband ha scritto sul Guardian che la lotta contro il cambiamento climatico è la «cosa più importante che possiamo fare per i nostri figli ei nostri nipoti. Non esiste nessun compromesso tra affrontare il cambiamento climatico e la costruzione di una economia nella quale le famiglie dei lavoratori vivano bene. Infatti, il successo su una cosa ci aiuterà ad ottenere l’altra». Dopo le devastanti alluvioni del 2014, Miliband ha detto che sono la conferma che il cambiamento climatico ha impatti non solo la sicurezza globale, ma anche sulla sicurezza nazionale ed ha aggiunto: «Dobbiamo essere guidati dalla scienza, il che dimostra che le emissioni sono più elevate del previsto e che alcuni effetti stanno arrivando più rapidamente del previsto».
Miliband piace agli ambientalisti, tanto che Joss Garman, ex direttore politico di Greenpeace, ha detto al Financial Times che quando è stato ministro dell’energia e dell’ambiente «Per i gruppi ambientalisti era qualcosa di simile a una divinità». In effetti Miliband nel 2009 è stato uno tra i pochi ad evitare il completo fallimento della Conferenza delle parti Unfccc di Copenaghen, è un noto stroncatore delle teorie ecoscettiche ed ha definito l’opposizione alla realizzazione di parchi eolici «socialmente inaccettabile», paragonandola al mancato uso delle cinture di sicurezza in auto».
Va detto però che, anche se Milibrand non vincesse, le politiche britanniche sui cambiamenti climatici non ne soffriranno gravemente: anche se quella terminata ieri è stata la campagna elettorale più tesa e nervosa degli ultimi decenni, Miliband, Cameron ed i leader dei maggiori partiti a febbraio hanno firmato insieme un impegno congiunto per la lotta contro il cambiamento climatico, nel quale si afferma che «Il cambiamento climatico è una delle più gravi minacce del mondo di oggi» e che «non è solo una minaccia per l’ambiente, ma anche per la nostra sicurezza nazionale e globale, per l’eliminazione della povertà e la prosperità economica».
Alastair Harper, di Green Alliance UK, ha detto a ThinkProgress che con questo impegno comune, che include un «Forte accordo» alla conferenza sul clima di Parigi di dicembre, «E’ un’indicazione molto positiva per il la discussione nazionale sui cambiamenti climatici nel Regno Unito» e che un accordo del genere sia stato sottoscritto all’avvio di una infuocata campagna elettorale, indipendentemente dal risultato delle elezioni, dimostra che «Il Regno Unito intende assumere un ruolo di guida per ottenere quello che ci serve». Anche secondo Simon Retallack, di Carbon Trust UK esiste «Un consenso politico tacito ma costante sulla necessità di ridurre le emissioni ed un ampio sostegno ai benefici a lungo termine della crescita verde, dell’energia pulita, dell’efficienza energetica e dell’innovazione tecnologica». Ma anche per Retallack le politiche ambientali laburiste sono più avanzate: «Oltre all’impegno di includere un obiettivo giuridicamente vincolante per eliminare il carbonio dall’elettricità del Regno Unito entro il 2030, il manifesto del partito laburista contiene il sostegno alle energie rinnovabili, una grande spinta sull’efficienza energetica e la creazione di un milione di posti di lavoro verdi».
I Liberaldemocratici, attuali alleati dei conservatori ma già pronti ad appoggiare il Labour in caso di vittoria, pagano le loro ondivaghe politiche sul nucleare – dal no sono passati al sì appena entrati al governo – ma confermano il loro impegno ambientale, dando la colpa ai conservatori se non lo hanno potuto mettere in atto.
Fuori dal coro resta l’United Kingdom indipendence Party (Ukip) il partito populista e xenofobo di destra che vuole «Ringiovanire l’industria del carbone» e che continua a dire che non esistono prove che il cambiamento climatico sia causato dall’uomo e che i recenti cambiamenti climatici fanno semplicemente parte del ciclo naturale. Non si riesce davvero a capire come il Movimento 5 Stelle, che su clima ed energia ha posizioni diametralmente opposte e molto più simili a quelle dei laburisti, possa continuare a stare al Parlamento europeo nello stesso gruppo dell’Ukip solo nel nome di un comune euro-scetticismo che per la destra inglese è ormai completa avversione.
Retallack, pur temendo un successo dell’Ukip, è convinto che il prossimo governo di coalizione britannico «Manterrà la leadership britannica sul clima e il Paese sarà un forte sostenitore di un accordo globale a Parigi». Se vincerà Miliband continuerà semplicemente il lavoro che ha avviato come ministro dell’ambiente nel 2008-2010, quando la Gran Bretagna approvò la legge sui cambiamenti climatici che permette di andare avanti con determinazione sugli obiettivi climatici, anche quando non sono politicamente vantaggiosi perché richiedono sacrifici e cambio di mentalità ed abitudini. E’ la legge che impegna il Regno Unito a ridurre le sue emissioni di almeno l’80% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. La nuova politica laburista ora va oltre e prevede “un obiettivo net zero global emissions nella seconda metà di questo secolo».
Di fronte all’offensiva climatica ed energetica laburista Cameron non ha annunciato misure significative di azione climatica, ma nel 2014, pressato dai laburiste dall’ala green dei conservatori, ha detto di essere convinto che «Il cambiamento climatico provocato dall’uomo è una delle più gravi minacce che hanno di fronte la Gran Bretagna il mondo», ma poi il programma dei conservatori parla quasi interamente di come favorire le iniziative economiche private.
Miliband viene accusato apertamente dall’Ukip (e sotterraneamente dall’ala anti-ambientalista dei conservatori) di subire le pressioni delle associazioni ambientaliste e di cercare semplicemente di non perdere voti a vantaggio del piccolo green Party e degli indipendentisti scozzesi, ma la Gran Bretagna non è l’America repubblicana e meno del 10% dell’opinione pubblica pensa che il riscaldamento globale non sia in corso o che gli eventi meteorologici estremi siano del tutto naturali, quindi i negazionisti climatici non trovano terreno fertile.
Stasera sapremo come è andata a finire e il risultato delle elezioni britanniche sarà un verdetto anche per l’Europa e per le politiche climatiche ed energetiche globali, alla faccia di chi continua a dire “ognuno a casa propria”, perché anche la Gran Bretagna è casa nostra… basterebbe domandarlo alle centinaia di migliaia di italiani che ci vivono.