L’Italia e la caccia che non c’è: i cinghiali dissotterrano il cadavere della legge 157/1992
[6 Ottobre 2015]
E’ diffusa l’opinione che fra le cause dell’«emergenza cinghiali» in Italia ci sia l’introduzione di ceppi ungheresi, più prolifici e più grandi rispetto al Sus scrofa majori, il cinghiale “maremmano”. L’affermazione è priva di fondamento: basta verificare che nella grande pianura dell’Ungheria, paese ad economia prevalentemente agricola, dove effettivamente gli irsuti suidi arrivano a sfiorare i 300 kg di peso, i contadini non protestano sotto le prefetture, né gli animali frequentano i parcheggi dei supermercati, le vie cittadine o i giardini pubblici.
E così nella maggior parte dei paesi mitteleuropei. Paesi, dove, da secoli, la caccia è quasi sempre ancorata ad un prelievo quali-quantitativo e si fonda su una notevole conoscenza dello stato della fauna (ai maschi adulti di cervo si arriva persino a dare un nome). Nella nostra penisola, per converso, non sappiamo nulla, o quasi, dei tracotanti cinghiali.
Non sappiamo nemmeno quanti ne vengono abbattuti ogni anno, atteso che gli unici dati della gestione faunistico venatoria (con le eccezioni di cervidi e bovidi, ove prelevati), infatti, sono i bugiardini venatori, pardon, i tesserini venatori su cui segnare i capi cacciati.
Salvo pochi studi, con scarsi dati molto localizzati, non abbiamo i contenuti reali per riempire le caselle delle dinamiche di popolazione, delle densità, della struttura, e così di tutti gli altri parametri biologici del cinghiale.
Conoscere è il passaggio che consente di gestire. Se non c’è conoscenza, non ci può essere gestione. E, infatti, laddove la tradizione venatoria, costruita sulla hauptjagd, cioè sulla caccia agli ungulati e ai grandi carnivori, per necessità intrinseca, ha costruito una valida gestione, nel nostro Paese, la caccia vagante e casuale alla piccola fauna stanziale o migratrice non ha posto le basi né per la cultura venatoria né per quella gestionale.
È provocatorio, ma molto veritiero, sostenere che la caccia, in Italia, ancora consiste, per lo più, nell’uscire con il fucile in spalla nella speranza di tirare casualmente a qualche animale. L’icona della domenica di caccia del rag. Fantozzi ha perso soltanto la dimensione numerica, posto che è sceso il numero dei praticanti (più che altro per “cause naturali”) ma non è variata la qualità. Ne è una dimostrazione il dato annuale degli incidenti.
E la l. 157/1992 (il copia-incolla malfatto e con poche modifiche della l. 968/1977) è la norma che incornicia tale stato dell’arte, anzi, che dà forza di legge a siffatta scellerata caccia. Paradossalmente, il testo unico sulla caccia del 1939, che recava soltanto una fotografia normativa delle diverse realtà venatorie italiane, possedeva molti più spunti gestionali, rispetto alla caccia “popolare” che, voluta dalle associazioni venatorie, è percolata sin dal 1967. Nemmeno, la transizione della fauna selvatica, da res nullius a “patrimonio indisponibile dello Stato” ha migliorato qualcosa, dato che appartengono alla stessa categoria di beni pubblici anche le panchine, che vengono divelte, o i cestini dei rifiuti, bruciati.
La l. 157/1992 stabilisce un elenco di specie cacciabili, un periodo di massima di apertura della caccia per ciascuna specie, una serie di divieti per i modi ed i luoghi di caccia, nonché una serie di limitazioni nelle giornate e negli orari, affinché il prelievo, libero, in qualche modo risulti potenzialmente contenuto sulla base dell’effettivo rispetto di queste regole. Tale impostazione si chiama “carniere teorico”, nel senso che si calcola teoricamente il prelievo massimo che ciascun cacciatore, per ciascuna specie e con determinate limitazioni di tempo, luogo, ecc., potrebbe astrattamente riuscire a comporre.
Questo espediente può dirsi funzionante soltanto supponendo un elevato concetto della legalità da parte del cacciatore, nonché assumendo l’esistenza di capillari controlli di vigilanza venatoria. Purtroppo è ben nota la diversa realtà.
E dunque, per una caccia che ha legittimato una predazione illimitata (anzi, limitata soltanto dal calo numerico dei cacciatori e dell’elevata età media degli stessi), unitamente ad una trasformazione degli habitat e ad un loro detrimento (inquinamento, industrializzazione dell’attività agricole, abbandono delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali, consumo del suolo, cementificazione dei fiumi, ecc.), ecco scomparire la piccola selvaggina, stanziale o di passo, che costituiva la caccia “tradizionale” lungo lo stivale. E ciò nella totale inerzia degli “ambiti territoriali di caccia” che, a dire della l. 157/1992 (per aggiornamento della l. 968/1977 alla c.d. direttiva “Uccelli” del 1979), avrebbero l’obbligo di provvedere al mantenimento ed al ripristino degli habitat naturali favorevoli alla riproduzione della fauna selvatica. Gli ambiti territoriali di caccia sono, inutile sottolinearlo, unicamente degli enti pubblici lottizzati dalle associazioni venatorie e preposti al cronico e insostenibile sperpero di denaro pubblico per i costosissimi “lanci di selvaggina”.
Ogni anno un ambito territoriale di caccia investe dalle 150 alle 300 mila euro per tali attività, piuttosto che impiegare lo stesso denaro per miglioramenti ambientali, sfalci, ripristino di zone umide, sostegno all’agricoltura tradizionale (anzi, ai sensi dell’art. 14 comma 14 l. 157/1992, «l’organo di gestione degli ambiti territoriali di caccia provvede, altresì, all’erogazione di contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica e dall’esercizio dell’attività venatoria nonché alla erogazione di contributi per interventi, previamente concordati, ai fini della prevenzione dei danni medesimi»: anche questa disposizione ricade nella generale inattuazione della l. 157/1992, a causa della ingessatura determinata dai ben altri interessi perseguiti delle associazioni venatorie).
Tra questi habitat trasformati e nell’inerzia cagionata dalla l. 157/1992, avallata dalle province e regioni (raramente dotati di competenti uffici di gestione faunistico-venatoria) e strumentalizzata dal cancro parapolitico delle associazioni venatorie, il cinghiale si diletta, giacché la presenza di tante coltivi abbandonati, ridotti ad ampie superfici di vegetazione arbustiva e di macchia, favorisce la loro presenza anche in zone definibili “non vocate”, magari a ridosso di campi dove nutrirsi o di centri abitati dove scorrazzare.
Per giunta, sempre in ossequio alla l. 157/1992, il cinghiale, come se fosse un migratore, viene cacciato sulla base del carniere teorico e con un prelievo illimitato e giammai quali-quantitativo, all’interno di un periodo di massima che nulla corrisponde alla biologia della specie.
Le soluzioni dietro l’angolo, però, esistono e non possono non passare per l’abbattimento e ricostruzione della l. 157/1992, ormai non più rinviabile. E la riforma deve inesorabilmente contemplare che: a) tutto il prelievo venatorio venga strutturato su basi di sostenibilità, e quindi su parametri quali-quantitativi; b) al posto degli ambiti territoriali di caccia vengano costruite delle unità di gestione faunistico-venatorie di piccole dimensioni, cui legare il cacciatore, che va reso responsabilizzato per il proprio operato.
L’operazione legislativa, ovviamente, deve essere compiuta bypassando le associazioni venatorie, i cui obsoleti rappresentanti hanno dimostrato un’indefessa resilienza in nome del mantenimento dello status quo ante; e, pertanto, la riforma deve investire anche il ruolo, i poteri ed i compiti delle associazioni venatorie, in modo da ricondurle in una sfera unicamente privatistica d’interesse e di funzioni.
Frattanto, appare indispensabile l’urgente adozione di un regolamento-tipo nazionale sul prelievo venatorio degli ungulati. E, prima ancora, l’azzeramento degli ambiti territoriali di caccia – che, è evidente, perseguono obiettivi non compatibili nemmeno con la deprecabile l. 157/1992 – disponendo una sorta di commissariamento unico nazionale, deputato all’attuazione di compiti individuati ed unitari di priorità d’intervento nella gestione faunistico-venatoria.