Entro il 2050 dimezzata la produzione in Etiopia. La risposta sono biotecnologie e food design?
Le piantagioni di caffè a rischio riscaldamento globale
Problemi anche per mais, banane,ulivi e viti. Le vigne francesi “emigrano” a nord
[20 Aprile 2016]
L’AREA Science Park di Trieste rilancia con forza l’allarme sulle conseguenze del riscaldamento globale sull’agricoltura: «I cambiamenti climatici stanno esercitando pressioni sugli ecosistemi con conseguenze sempre più acute in agricoltura, particolarmente evidenti nel Sud del mondo in cui siccità e modifica della salinità delle acque stanno facendo maggiormente sentire i propri effetti». L’allarme viene rilanciato
Il Trieste Coffee Cluster ha chiamato a raccolta un gruppo di genetisti ed esperti in fisiologia vegetale «per analizzare il fenomeno e comprendere in che modo le biotecnologie possano attraverso il “food design” suggerire delle risposte al problema. L’obiettivo è attuare strategie in grado di preservare nei prossimi anni intere colture e i sistemi economici ad esse correlate, aumentando la resilienza delle piante, ovvero la loro capacità di adattamento al mutare delle situazioni ambientali».
Le proiezioni future per i caffè ed altre colture, sono tutt’altro che rassicuranti, Furio Suggi Liverani del Trieste Coffee Cluster sottolinea che «Da alcuni anni la situazione è molto critica nelle piantagioni del Centro America, lato Pacifico e Atlantico, con differenze da Paese a Paese. Il global warming sta provocando danni anche in Centro Africa, dove per il 2050 rischia di scomparire il 50% delle piantagioni di caffè sulle alture che costeggiano la valle del Rift, in Etiopia, da dove la coltivazione di questa pianta e il suo utilizzo si sono diffusi nel resto del mondo. Stesso scenario anche in Ruanda. I principali effetti sono visibili già oggi nel mix del caffè verde che viene commercializzato a livello globale, con un aumento della percentuale di varietà Robusta a scapito della Arabica, di maggiore qualità ma più vulnerabile ai cambiamenti in corso. Il porto di Trieste è un ottimo punto di osservazione per questo fenomeno: nel 1990 si sdoganava 100% Arabica, oggi non è più così. Il nostro settore industriale – conclude Suggi Liverani – ha bisogno di varietà con maggiore resilienza ai cambiamenti climatici».
Anche il mais è molto vulnerabile e gli studi prevedono che «circa il 90% delle aree coltivate con questo cereale sperimenteranno riduzioni di produzione stimabili tra il 12 e il 40%, specie in Africa occidentale».
Gli esperti fanno notare che «In generale, l’utilizzo di pochissime varietà di piante imposto dalle colture intensive si sta rivelando un problema in termini di adattamento ai cambiamenti climatici. Oggi, per esempio, l’’intero commercio mondiale di banane si basa sulla sola varietà Cavendish e un crollo della sua produzione metterebbe in ginocchio molte economie di Paesi in via di sviluppo. Negli anni ’50 è bastata una singola malattia a spazzare via la Gros Michel, una varietà più dolce e più piccola».
Michele Morgante, dell’stituto Genomica Applicata (IGA), spiega che «Il cambiamento climatico si riflette in molti modi sulla fisiologia e sulla crescita della pianta. Il fenomeno più temuto, per esempio nelle aree mediterranee, è quello di una maggiore siccità. Sviluppare varietà di piante più capaci di tollerare minore abbondanza d’acqua è uno degli obiettivi che il miglioramento genetico persegue da tempo. Grazie alla genomica stiamo capendo sempre meglio quali siano i meccanismi molecolari che permettono alla pianta di sopravvivere in condizioni di siccità, continuando, nello stesso tempo, ad essere produttiva. E’ questa la vera sfida che potremo vincere grazie al genome editing, riuscendo in un tempo non troppo lungo a ottenere nuove varietà in grado di sopravvivere utilizzando molta meno acqua».
Raffaele Testolin, anche lui dell’IGA, conclude sottolineando gli impatti del cambiamento climatico in corso anche in Europa: «Lo stress generato sulle piante dall’alternarsi di lunghi periodi di pioggia e di siccità risveglia patogeni ai quali le piante non erano più abituate a reagire. La stessa Xylella che ha decimato gli ulivi nel Salento può essere stata favorita da questo stress. Anche la viticoltura è coinvolta dal fenomeno, al punto che alcuni produttori francesi delle zone dello Champagne stanno giocando d’anticipo, acquistando terreni in Inghilterra meridionale prevedendo che, se non cambierà qualcosa, potrebbero vedersi costretti a piantare i loro vigneti più a Nord».