E se mettessimo la Terra al posto del Pil?
Adam Smith: «Nulla è più utile dell’acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa»
«Che cosa è un cinico?» La penetrante ironia di Oscar Wilde risponde alla domanda affermando che è «uno che sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna». Se scegliamo di fidarci dell’acuto autore irlandese non possiamo che giungere a un’inevitabile osservazione: la moderna società occidentale è il più grande ammasso di cinici che il pianeta abbia mai visto.
Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia e autore di Natura Spa – La Terra al posto del Pil, attacca direttamente il problema nelle prime pagine del suo volume, citando il nume tutelare dell’economia moderna – sviluppatasi a partire dal ‘700 – il filosofo scozzese Adam Smith: «Nulla è più utile dell’acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa, difficilmente se ne può avere qualcosa in cambio. Un diamante, al contrario, ha difficilmente qualche valore d’uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di beni». Così, negli ultimi 300 anni abbiamo cominciato a valutare come sempre più preziosi i diamanti, ma dissetandoci inevitabilmente con l’acqua. Dalla fine del 1700 a oggi però la popolazione mondiale è passata da circa un miliardi di individui a più di 7, e si presume sarà pari a 11 miliardi di persone alla fine di questo secolo: il consumo di acqua utilizzata per l’agricoltura, per l’industria o più semplicemente per usi civili è schizzato alle stelle, e così insieme alle guerre per i diamanti oggi cominciamo a vedere le avvisaglie anche di quelle per l’oro blu.
Ma l’acqua è soltanto un esempio. «Negli ultimi duecento anni elementi fondamentali come il rapporto dell’umanità con i sistemi naturali – scrive Bologna – la nostra comprensione delle fonti di ricchezza e, persino, degli scopi stessi dell’economia, l’evoluzione dei mercati, degli assetti statali e dei singoli individui come attori economici, si sono talmente modificati che è ormai ovvio dichiarare chiusa un’era economica e avviare un indispensabile e significativo cambiamento». Ma dal «dichiarare» al praticare di acqua (stavolta metaforicamente) ne corre.
La comprensione del sistema economico come sistema aperto alla dimensione sociale e alla dimensione naturale che lo contengono ha fatto passi da gigante negli ultimi quarant’anni, racchiusa in discipline come l’economia ecologica, ma la determinante importanza di elementi come i servizi ecosistemici non è ancora riuscita a perforare la corazza dell’economia mainstream e ad affermarsi come filo conduttore di una nuova economia.
Ecco che il lavoro di Bologna si fa prezioso, nel fare una summa (certamente non esaustiva, ma col pregio di essere racchiusa in 150 pagine) della conoscenza acquisita in questo campo proponendo al lettore un volo d’uccello su quanto la mente umana ha già riuscito a comprendere, senza che la mano abbia saputo (o voluto) mettere in pratica.
Ma il trucco non sta soltanto nel riuscire a dare un valore (economico) alla natura. Il Copi, ad esempio – uno studio curato, tra gli altri, dall’Unep e la Fondazione Eni Enrico Mattei –, come riporta Bologna, ha «stimato una perdita annuale di servizi eco sistemici nel corso dei primi anni 2000-2050, per un valore pari a circa 50 miliardi di euro soltanto per gli ecosistemi terrestri». Chi se ne frega, si potrebbe rispondere: a fronte di Pil mondiale di circa 75mila miliardi di dollari, 50 miliardi sono soltanto noccioline.
Superata però la capacità di carico, ossia «il numero di individui in una popolazione che un ambiente è in grado di sostenere con le proprie risorse», l’ecosistema di riferimento può rapidamente degradarsi, anche fino a uno stato in cui la sopravvivenza della specie umana così come la conosciamo può essere messa a rischio. È dunque necessario non soltanto “dare un valore alla natura”, ma anche stabilire dei limiti fisici oltre i quali la dimensione dell’economia quantitativa non può andare.
Oggi sappiamo che il 99% delle specie viventi che hanno visto la luce sul pianeta nel corso dei millenni sono ormai estinte, ma ben pochi di noi avrebbero voglia di scommettere qualsivoglia cifra – 50 o 75mila miliardi di dollari che siano – sul rischio che al prossimo giro si aggiunga alla lista anche la specie umana.