Riceviamo e pubblichiamo
I parchi oggi
[25 Novembre 2016]
I temi ambientali -e non solo a livello nazionale, raramente, probabilmente mai- hanno assunto un rilievo e una drammaticità quale registriamo oggi.
Non c’è Stato o organismo internazionale che non debba fare i conti con una situazione a rischio planetario quale quella che si configura per un futuro tanto prossimo.
Se non c’è parte del mondo esclusa o risparmiata non ci sono neppure aspetti o ambiti non coinvolti rispetto anche a tradizioni che hanno circoscritto generalmente, più o meno settorialmente, tematiche via via ricondotte al governo del territorio sempre più esposto a danni e rischi di cui il nostro paese offre un campionario fin troppo ampio. E anche più significativo e allarmante in ragione del nostro patrimonio naturale, paesaggistico, artistico e storico.
Non credo occorrano esemplificazioni al riguardo perchè sono sotto gli occhi di tutti nella loro drammatica attualità.
Questa molto sommaria premessa per passare subito all’oggetto di questo scritto molto specifico, probabilmente uno dei più specifici non soltanto nella nostra tradizione culturale e normativa, ma anche quello che oggi più di ieri interseca e incrocia anche le nuove complessità ambientali.
Nel venticinquennale della Legge 394 si è ricordato giustamente che essa non segnò soltanto l’avvio della istituzione di un sistema -purtroppo mai del tutto realizzato- di parchi e di aree protette, che permise oltre che allo stato alle regioni e agli enti locali -ossia province, comuni, comunità montane- di immettere nuove finalità di tutela nelle loro politiche, fino a quel momento tagliate fuori da qualsiasi tipo di pianificazione che non andassero oltre i piani regolatori generali.
E già qui, però, basta vedere il dibattito -quando lo è- sulla nuova legge di modifica della 394 votata dal Senato, non si fatica a cogliere la sconcertante novità rispetto al passato. E’ sorprendente, infatti, che nel momento in cui temi ormai esplosi sul piano mondiale e che per i parchi e nei parchi sono stati presenti in qualche misura o al centro del loro ruolo, dovrebbero essere cancellati o marginalizzati per lasciare il posto a ‘trovate’ come le royalties e le rappresentanze di categorie negli enti di gestione.
Il confronto oggi e ieri, cioè tra l’approdo del 1991 e il presente, è sconfortante. Lo è innanzitutto per la mancanza oggi di un qualsiasi vero confronto in parlamento, tra forze politiche e tra queste con la società, dalle istituzioni ai parchi.
Non ho mai dimenticato, anche come ex deputato, che la presentazione nel 2011 del testo a firma D’Alì si riduceva ad un foglietto senza una vera relazione e senza alcuna documentazione degna di questo nome. Chi volesse verificare quanto e come siano cambiate le cose, può consultare la biblioteca del Centro Giacomini presso il Parco di San Rossore che ho contribuito a istituire.
Sul testo recentemente approvato abbondano i documenti critici delle decine di associazioni ambientaliste e a quelli rimando anche perché emerge chiaramente un dato di segno assolutamente opposto a quello del 1991 e degli anni immediatamente successivi ed è la latitanza di Federparchi, che fin dalle prime battute si limitò al massimo a presentare qualche irrilevante emendamento….
Su tutto risalta, anche se non sempre sembra attirare l’attenzione dovuta neppure tra i tanti critici della legge, il destino delle aree protette marine. Nel 2011 l’argomento principale che fu usato a sostegno della necessità -come si disse- di ‘aggiornare’ la legge 394 ormai invecchiata, fu proprio quello delle aree protette marine. Che il comparto fosse quello in maggiore sofferenza era noto da anni, ma dipendeva come era stato denunciato più volte anche nelle sedi più autorevoli, soprattutto da Federparchi –ricordo la Seconda Conferenza Nazionale dei Parchi di Torino- dal fatto che il ministero dell’ambiente sulle aree protette marine non aveva mai rispettato e attuato la legge quadro, ma l’aveva al contrario clamorosamente violata, a partire da Ronchi, che sostenne che i parchi regionali non potevano diversamente da quelli nazionali gestire quelle aree protette marine pur operanti ‘nei tratti di mare prospicenti le regioni’. Il ministro fu smentito clamorosamente sul piano giuridico ma la musica non cambiò. Ora il Senato per levare uno volta per tutte il vin dai fiaschi ha cancellato la norma della 394 che stabiliva il ruolo delle regioni nell’ambito della gestione delle aree protette marine regionali. E’ un aspetto di una gravità enorme che –ripeto- sembra essere passato in secondo piano rispetto a modifiche certamente discutibili ma sicuramente non così gravi. Del resto basta la lettura del testo approvato per chiederci come sia possibile nel 2016 partorire un simile mostriciattolo legislativo. Come ho ricordato più volte in questi anni mi sono occupato di questo aspetto per conto di Federparchi sulla Rivista Parchi e in più di una pubblicazione anche della Collana ETS e in vari Centri Studi. Sull’argomento merita di essere ricordato in particolare il Quaderno sul Santuario dei Cetacei che raccoglie gli atti del Seminario Internazionale a Genova, 22 marzo 2001, in cui pubblicammo anche il testo votato dal Parlamento uscito sulla Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2001, con il quale l’Italia aderiva al santuario.
Ebbene oggi del santuario non si hanno notizie se non per le imprese di Schettino o le proteste del governo francese che ci addebita giustamente la nostra latitanza tanto da chiederne il trasferimento della sede da Genova a Montecarlo.
Ecco perché mi sorprese quando il ministro dell’ambiente Orlando nel primo incontro che ebbi con lui al Ministero, come Gruppo di San Rossore, mi propose di istituire presso il parco di San Rossore, a cui dopo tanti anni era stata affidata finalmente la gestione della Riserva Marina della Meloria, un Osservatorio sul Mare di cui il ministero ci avrebbe assicurato il finanziamento. Orlando ne parlò anche con il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, ma con il passaggio dell’ambiente al ministro Galletti è sparito tutto.
Qui tuttavia non posso non ribadire, e non solo nei confronti di Federparchi, la mia sorpresa risentita ma anche e prima ancora la mia sconfortante sorpresa politica per la piega presa da queste vicende.
Appartengo ad una forza politica che è stata tra le più impegnate a sostegno dei parchi e non solo della ‘vecchia’ legge. Ho avuto anche l’onore di rappresentarla in diverse sedi e circostanze anche nazionali, e ora provo imbarazzo e stizza per questa inspiegabile caduta tanto più che nessuno sa dove e come si prendono simili decisioni.
In padella non sono finiti solo i parchi
Qui si apre però un problema che va molto al di là della vicenda delle nostre aree protette.
Che quello dei parchi fosse un problema già di per se scomodo lo avevamo capito dinanzi al ripetuto rifiuto di convocare la Terza Conferenza Nazionale dei Parchi. Difficile è sempre più risultato, infatti, spiegarci -ma non ci si è presi neppure la briga di provarci-le ragioni di questo rifiuto ad un appuntamento in cui tutti insieme si potesse fare il punto su una situazione sempre più sbrindellata e ormai orfana di una qualsiasi assunzione di responsabilità da parte di un ministero ultimamente latitante e prima ancora impelagato in vicende in cui si era persino pensato ad una ‘privatizzazione’ dei parchi di cui oggi troviamo significative tracce nella nuova legge proprio in riferimento alle aree protette marine; quelle che dovevano essere ‘rilanciate’.
Eppure si erano via via infittite le denunce anche autorevoli sulla mancanza di piani nella maggior parte dei parchi nazionali. Si erano moltiplicate le gestioni commissariali senza fine in molti parchi nazionali, privi spesso anche del direttore. Idem per le risorse, e poi il pensionamento del CFS e molto altro ancora.
Così anche realtà con alle spalle tradizioni e situazioni sicuramente meno traballanti ed esperienze più affidabili–penso al Parco dello Stelvio- devono vedersela con decisioni di cui è difficile capire il senso.
Se passiamo al contesto regionale, non escluse neppure le regioni che storicamente possono vantare tradizioni e risultati molto importanti anche sul piano nazionale, non sta molto meglio di quello nazionale.
Insomma anche i cattivi esempi purtroppo spesso fanno scuola quanto e più di quelli buoni.
La leale collaborazione costituzionale e istituzionale
Qui si tocca una di quelle questioni a cui ho fatto cenno e cioè l’intersecarsi di ambiti e aspetti diversi delle politiche ambientali e del governo del territorio.
Che per i parchi questa esigenza riguardava innanzitutto il rapporto e la collaborazione tra di loro vale a dire parchi nazionali, regionali, aree terrestri e marine, ambiti comunitari e così via la legge del 1991 lo presupponeva avendo al riguardo previsto sedi politico istituzionali ministeriali sulla programmazione e sedi tecnico-scientifiche a sostegno di una politica di sistema nazionale.
Non a caso per le aree protette marine che erano state istituite in una legge precedente la 394 ( quella su mare) e affidate al Ministero della Marina Mercantile furono ricondotte al ministero dell’ambiente.
A questa conclusione importante in parlamento si giunse all’ultimo momento perché –è bene ricordarlo- la 394 parlava solo dei parchi nazionali e non era certo un caso. Ma la festa come sappiamo durò poco perché presto la legge fu ridimensionata nelle norme e ancor più nella gestione concreta. Quella leale collaborazione che i parchi avrebbero dovuto cercare sempre più anche con gli altri soggetti istituzionali operanti sul territorio venne meno sempre più anche tra le stesse aree protette.
Manchiamo praticamente di una classificazione tanto che gran parte delle nostre aree protette risultano figlie di N.N.
Della Carta della Natura si sono perse le tracce, idem per altri piani nazionali; biodiversità etc.
E mentre sul piano europeo e internazionale su aspetti e materie ambientali decollavano convenzioni come quella sul paesaggio che lo rilanciava in una dimensione non meramente estetica o vincolistica con il nuovo Codice dei Beni culturali i parchi venivano tagliati fuori quasi che fosse possibile fare un piano di un parco senza fare i conti con il paesaggio.
Me lo sono chiesto come vecchio amministratore del Parco di San Rossore che varò in anni lontani il piano Cervellati a cui anche alcune associazioni ambientaliste rimproverarono di aver dedicato troppa attenzione al paesaggio. Di questi rischi credo non ne corriamo più. Da questo punto di vista consiglio la lettura di un recente volume curato da Anna Marson che ha raccolto i molti e tosti contributi di esperti sul piano paesaggistico toscano che consente di cogliere e mettere a fuoco le molte novità di un territorio tra i più pregiati del paese e anche di valutare come procedono quando procedono le politiche del governo del territorio dove non serve alcuna supremazia dello stato ma una intesa seria tra stato e regioni. Non quella della Conferenza Stato-Regioni come annota giustamente in suo recente scritto Carlo Desideri. E come dice Paolo Maddalena il fatto che ‘il Titolo V abbia riservato alla potestà legislativa dello Stato la tutela dell’ambiente, ciò non toglie che sia rimasta alle Regioni la possibilità di istituire parchi e riserve regionali’. E’ bene ricordarlo perché per qualcuno sarebbe bene togliere alle regioni anche questo.
Nel dibattito su questi temi riapertosi soprattutto con il nuovo Titolo V vi è chi ha ricordato che la parola ambiente nella nostra Costituzione ricorre solo una volta. E’ una questione emersa negli anni più di una volta. Ricordo che al tempo di Matteoli ministro dell’ambiente al Senato furono presentate e discusse alcune ipotesi di integrazione dell’art 9 in cui esplicitare più chiaramente il significato di ambiente oggi rispetto alla legge Bottai e al 1939.
Nel 2001 tra le ragioni principali di quel Titolo V vi fu -e ricordo che si parlò anche della esperienza dei parchi – la ricerca di soluzioni che potessero finalmente consentire una gestione del territorio in cui competenze e leggi riguardanti il suolo, l’inquinamento, il paesaggio, la tutela della natura, i bacini, i parchi potessero essere gestite d’intesa e non in concorrenza e competizione.
Non giovò –come poi avremmo visto e ci ricorda Carlo Desideri-ricorrere a regole non già federaliste ma ‘secessionistiche’ come la devolution di stampo leghista.
Che bisogna cambiar musica e non solo per i parchi è fuori discussione ma non per tornare al vecchio perché nel 2001 si decise perché era chiaro che le cose non potevano andare avanti con il vecchio centralismo che non aveva saputo mettere a frutto neppure buone leggi come quella sul suolo, paesaggio e neppure per i parchi.
Ecco perché tornare ai santi vecchi sarebbe un grave errore.
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