Etiopia, che cosa ha da nascondere l’Italia nella valle dell’Omo?
Rapporto Re.Common: «Le mille ombre del sistema Italia in Etiopia»
[30 Novembre 2016]
Re:Common ha recentemente pubblicato il rapporto “Che cosa c’è da nascondere nella Valle dell’Omo”, frutto di quello che la stessa Ong definisce «una missione sul campo forzatamente “monca”, parziale, in quanto le autorità locali non ci hanno permesso di visitare una delle regioni del Paese più rilevanti per gli interessi italiani – per l’appunto la Valle dell’Omo –, sostanziando il nostro sospetto che in quei luoghi c’è più di qualcosa che è meglio rimanga celata a occhi indiscreti. Un’analisi e una spiegazione eterodossa del cosiddetto “Sistema Italia”, basato sulla sinergia tra pubblico e privato, a partire dal ruolo che la nostra cooperazione gioca in contesti come quello etiopico. E ancora una denuncia della crescente repressione portata avanti dal governo di Addis Abeba nei confronti di ogni forma di dissenso, ma anche dell’impatto delle sue politiche di sviluppo, che si intrecciano con faraonici progetti infrastrutturali spesso contrassegnati da forti interessi italiani. Come nel caso delle dighe nella Valle dell’Omo, località dove ci è stato impedito in ogni modo di andare».
I due autori del rapporto, Giulia Franchi Luca Manes, spiegano che «Per raccontare la situazione dei luoghi che non abbiamo potuto visitare ci siamo dovuti per forza affidare alla nostra rete di contatti locali. Il quadro che emerge dalle numerose testimonianze raccolte è sconfortante. Le tribù della bassa Valle sono sfrattate con violenza dalle loro case ancestrali, mentre i loro pascoli e terre agricole sono trasformate in piantagioni industriali di canna da zucchero, cotone e agro-combustibili. Si parla di percosse, abusi e intimidazioni generali, e di violenze indicibili da parte dei soldati etiopi. Nel frattempo, decine di abitanti della regione sono stati catturati e rimangono in detenzione per aver espresso apertamente la loro opposizione ai piani di sviluppo statali».
Secondo ReCommon, «In questo contesto, la realizzazione dell’impianto di Gigel Gibe III da parte dell’italiana Salini Costruttori sta distruggendo un fragile ecosistema e mettendo a repentaglio la vita delle comunità. Una volta completata la diga, l’inondazione prodotta dal bacino artificiale sommergerà i territori su cui le tribù della Valle dipendono per la coltivazione e l’allevamento e ridurrà drasticamente il livello del Turkana in Kenya, il più grande lago desertico del mondo. Circa 500mila persone in Etiopia e in Kenya si troveranno così a dover fronteggiare una vera e propria catastrofe umanitaria».
La Franchi conclude: «Con esecutivi amici come l’Etiopia, l’Egitto e l’Arabia Saudita è sempre più evidente che il nostro governo misura l’efficacia della sua politica estera in base all’andamento dei bilanci delle grandi multinazionali italiane del petrolio, delle infrastrutture o delle armi. Il rispetto dei diritti umani è ormai un elemento secondario, purtroppo».