Filippine, la Chiesa contro il presidente Duterte: «Regno del terrore». La “guerra alla droga” è conto i poveri
Duterte interrompe i negoziati con i guerriglieri maoisti: «La pace non verrà durante la nostra generazione»
[7 Febbraio 2017]
Il 5 febbraio la Conferenza episcopale delle Filippine ha emesso un duro comunicato di condanna contro la “guerra antidroga” lanciata dal presidente Rodrigo Duterte, accusando il suo governo di aver instaurato un «regno del terrore» nelle comunità più vulnerabili del Paese.
Insomma, per la potente Chiesa cattolica filippina, le operazioni antidroga che hanno consentito alla polizia e squadroni della morte di assassinare più di 7.000 persone accusate di essere consumatori o trafficanti, è in realtà una guerra contro i poveri e contro gli attivisti sociali e gli ambientalisti che li difendono. Vescovi e cardinali filippini dicono che la guerra sporca di Duterte potrebbe costituire un crimine contro l’umanità, come denuncia anche Amnesty International in un rapporto che conclude che «Le comunità povere sono le principali vittime delle esecuzioni extragiudiziarie».
Nel documento firmato dal presidente della Conferenza episcopale, Socrates Villegas, i vescovi filippini esprimono «Profonda preoccupazione per i numerosi morti e assassinati» e aggiungono «Un motivo in più per la nostra preoccupazione è il regno del terrore tra i poveri. Molti non vengono assassinati a causa della droga. Quelli che li uccidono non vengono condotti davanti alla giustizia»- Per la Chiesa delle Filippine, «La guerra contro le droghe è una guerra contro i poveri. Altra causa di preoccupazione ancora maggiore è l’indifferenza di molti per questo tipo di comportamenti. E’ considerato normale o, peggio ancora, qualcosa che deve essere fatto».
Il comunicato, che non nomina mai Duterte. È il frutto della riunione plenaria degli 80 vescovi delle Filippine che ha discusso i principali problemi che hanno di fronte la Chiesa e la società dell’unico Paese cattolico dell’Asia, ma che ospita una numerosa comunità islamica (con una guerriglia secessionista) e i rimasugli di un “esercito di liberazione” comunista/maoista. Il documento è stato affisso e letto durante la messa domenicale in tutte le chiese cattoliche delle Filippine e ricorda ai fedeli che «Qualunque azione che crea danni ad altri è un peccato grave» e che «La radice del problema della droga e della criminalità è la povertà, la distruzione della famiglia e la corruzione della società». I vescovi avvertono il governo che «La Chiesa continuerà a denunciare il male, pur ammettendo e pentendosi dei suoi errori. Lo faremo anche se questo implica che ci perseguiranno».
E da pentirsi la Chiesa delle Filippine ha molto, compreso il suo appoggio alla feroce dittatura di Ferdinando Marcos in funzione anticomunista. Ma il comunicato è soprattutto una risposta della Chiesa cattolica alle parole di Duterte, che il 24 gennaio aveva denunciato «l’ipocrisia» della Chiesa e delle critiche dei sacerdoti contro gli omicidi di massa autorizzati dalla sua crociata “antidroga”. «Io ora li sfido – aveva detto il presidente filippino – sfido la Chiesa cattolica, sono pieni di merda e tutti appestati, dalla corruzione e da tutto». Così la conservatrice Chiesa filippina si trova sfidata da un presidente populista e fascistoide che ha definito «Figlio di puttana» Papa Francesco in visita a Manila nel novembre 2015, per poi “rivelare” che da adolescente era stato molestato sessualmente da un prete, come diversi suoi compagni del centro educativo che frequentava. Nel maggio 2016, durante la campagna elettorale, dichiarò «Non sono più membro della Chiesa Cattolica- Ho qualcosa di nuovo. Unitevi a me nella Chiesa di Duterte». Qualche giorno dopo denunciò i sacerdoti che hanno mogli, che sono omosessuali, che rubano fondi pubblici e abusano dei minori.
La potente Chiesa Cattolica delle Filippine, che ha fatto eleggere e cadere presidenti, non poteva subire ancora per molto e ha attaccato Duterte, che ha fatto dell’assassinio e del disprezzo delle leggi e della convivenza civile la cifra della sua presidenza.
Intanto Duterte ha pensato bene di mettere fine anche ai colloqui di pace con la guerriglia maoista del Nuovo esercito del popolo (New people’s army – Npa), dopo che i rimasugli dei miliziani comunisti avevano deciso di non rispettare il cessate il fuoco decretato 6 mesi fa, denunciando la ripresa delle operazioni militari contro i guerriglieri e i comunisti maoisti.
La guerriglia maoista dell’Npa è iniziata nel 1969 e in mezzo secolo ha provocato tra i 30.000 e i 40.000 morti, ma ora è ridotta a pochi gruppuscoli che dal 1987 stanno trattando la pace coni vari governi filippini.
Secondo l’agenzia cattolica Asia News, «La popolazione di Mindanao teme la ripresa delle ostilità» e Peter Geremia, missionario del Pontificio istituto missioni estere (Pime) a Mindanao, si augura: «Speriamo che questa sia solo una fase e che venga presto superata».
La decisione di Duterte è stata presa il 4 febbraio, tre giorni prima i guerriglieri comunisti avevano comunicato l’intenzione di interrompere, a partire dal 10 febbraio, la tregua decretata unilateralmente a margine degli incontri di pace di Oslo.
Asia News spiega che i ribelli maoisti «accusano Duterte di non aver rispettato “l’obbligo” del governo di rilasciare tutti i prigionieri politici entro ottobre. Hanno anche dichiarato che il governo di Manila si è avvantaggiato a tradimento del cessate il fuoco per invadere territori che i ribelli considerano parte della loro sfera di influenza. L’annuncio arriva dopo uno scontro a fuoco che il mese scorso che provocato la morte di otto soldati filippini e un ribelle.
Duterte, che dopo il suo insediamento, a fine giugno 2016, aveva rilasciato alcuni capi maoisti per riprendere i negoziati di pace, e che nel 2015, quando era sindaco di Davao, aveva partecipato, con in testa un berretto con la stella rossa, tra lo sventolio di bandiere con la falce e martello e strette di mano con i guerriglieri, alla liberazioni di militanti Npa, ha reagito con rabbia: «Ho detto ai soldati di prepararsi per una lunga guerra. Ho detto che [la pace] non verrà durante la nostra generazione. I negoziatori del governo hanno ricevuto l’ordine di piegare le tende e tornare a casa. Non mi interessa più parlare con loro. Ora mi rifiuto di parlare. Stiamo combattendo da 50 anni. Se si vuole riprendere per altri 50, non è un problema, saremo lieti di accontentarvi».
Peter Geremia conclude: «Questa nuova escalation tra il governo e il gruppo armato preoccupa il popolo filippino, spaventato all’idea di veder protrarsi l’annoso e sanguinoso conflitto. E’ una notizia che ci sorprende e che dà un senso di paura a tanti giovani. Purtroppo i negoziati per la pace non hanno risolto i problemi tra i gruppi combattenti. Speriamo che questa sia solo una battuta d’arresto sul cammino verso un accordo di pace. In alcune zone ci sono già stati degli incidenti e i civili sono un po’ preoccupati. Il presidente ha fatto tante dichiarazioni che poi ha ritrattato. Non mi sorprenderebbe se anche questa fosse una di quelle. Speriamo che questa sia solo una fase e che venga presto superata».