Contro il greenwashing: il “sosteniblablablà” ha un costo elevato
L’abuso dei termini “sostenibile” e “sostenibilità” ne compromette il significato e l’impatto: ci fa credere che tutto quel che facciamo, compriamo e usiamo possa continuare all’infinito
[4 Agosto 2017]
Gli oltre 200 eventi realizzati in tante città italiane nell’ambito del primo Festival dello sviluppo sostenibile, fortemente voluto da Enrico Giovannini, economista di fama internazionale e animatore dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), che mira a diffondere e a praticare concretamente l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, hanno consentito una importante riflessione sulla possibilità di diffondere al meglio il concetto di sostenibilità in Italia. Un paese nel quale, purtroppo, continua a perseverare un clima di una cultura politica ed economica che considera la sostenibilità come un ostacolo, a meno che non venga intesa come un vacuo “bla-bla-bla” che possa comunque giustificare ogni azione distruttiva nei confronti della natura, purchè qualcuno la definisca “sostenibile”.
Più volte mi torna alla mente quanto scritto da Robert Engelman nel bellissimo volume “È ancora possibile la sostenibilità?” che ha rappresentato lo State of the world 2013 del prestigioso Worldwatch Institute, del quale ho curato l’edizione italiana per Edizioni Ambiente: «Quella in cui viviamo è l’epoca della sosteniblablablà, una profusione cacofonica di usi del termine “sostenibile” per definire qualcosa di migliore dal punto di vista ambientale o semplicemente alla moda […]. Il suo impiego in ambito ambientale è esploso a seguito della pubblicazione de “Il futuro di noi tutti” nel 1987, il rapporto della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo. Lo sviluppo sostenibile, come hanno dichiarato il primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland e colleghi “soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni” […] Attraverso una diffusione sempre più a livello popolare, il termine “sostenibilità” sembrò divenire sinonimo dell’aggettivo “verde”, altrettanto vago ed elusivo, che alludeva a un non ben definibile valore ambientale, in termini di “crescita verde” o “lavori verdi”.
Oggi il termine “sostenibile” più comunemente si associa alla strategia di greenwashing messa in atto da alcune aziende. Parole come progettazione sostenibile, auto sostenibili e persino biancheria sostenibile imperversano nei media. Una linea aerea garantisce ai passeggeri che “il cartone utilizzato proviene da fonte sostenibile” mentre un’altra informa che la loro nuova iniziativa sostenibile di bordo ha fatto risparmiare abbastanza alluminio nel 2011 “per costruire tre nuovi aerei”. Entrambi gli utilizzi non dicono se l’attività complessiva delle linee aeree, o il settore dei trasporti aerei, possa essere sostenuto a lungo ai livelli attuali […] Un uso così diffuso del termine indica che un concetto ambientale chiave ora gode del benestare della cultura popolare.
Ma il sosteniblablablà ha un costo elevato. L’abuso dei termini “sostenibile” e “sostenibilità” ne compromette il significato e l’impatto. Ancor peggio, un uso improprio e frequente ci fa credere al sogno che tutti noi – tutto quel che facciamo, compriamo e usiamo – si possa continuare all’infinito, in un mondo senza fine, amen. Ma la realtà è ben diversa. La questione se la civiltà possa continuare in questa direzione senza compromettere il benessere futuro è al centro del dibattito attuale sull’ambiente mondiale. Dopo il fallimento di summit internazionali su clima e ambiente, di fronte a governi nazionali che non agiscono in maniera adeguata rispetto alla gravità del rischio dei cambiamenti ambientali, l’umanità può ancora modificare i suoi comportamenti per renderli sostenibili? La sostenibilità è ancora possibile? Se l’umanità non riuscirà a raggiungere la sostenibilità, quando e in che modo i trend insostenibili cesseranno? E come vivremo durante e dopo? Indipendentemente dalle parole usate, queste sono le domande da porsi. In caso contrario, si rischia l’autodistruzione».
Con il passare del tempo, nonostante le tante azioni positive, spesso organizzate come si ama dire “dal basso” che stanno rappresentando importanti e significativi segnali per un reale cambiamento di rotta, la situazione internazionale generale appare ancora molto lontana dal raggiungimento di un livello importante di sostenibilità che può farci ben sperare in un futuro meno insostenibile dell’attuale.
Le Nazioni Unite hanno recentemente pubblicato il nuovo “World population prospects: The 2017 revision”, il 25° da quando è stato reso noto il primo nel 1951. Si tratta del rapporto internazionale più autorevole sugli andamenti della popolazione mondiale e sugli scenari credibili previsti per il futuro. La revisione 2017 (la precedente e ultima revisione pubblicata è apparsa nel 2015) rivede, in crescita, i dati pubblicati allora e fornisce, per la variante media della crescita della popolazione umana, quella che ha la maggiore possibilità di verificarsi realmente, le seguenti cifre: l’attuale popolazione mondiale di oltre 7.5 miliardi di esseri umani, dovrebbe sorpassare gli 8.5 miliardi nel 2030, raggiungere quasi i 9.8 nel 2050, giungendo ad una popolazione di quasi 11.2 miliardi nel 2100.
Attualmente il 60% di questa popolazione vive in Asia (4.5 miliardi che saranno quasi 5.3 nel 2050), il 17% vive in Africa (1.3 miliardi che saranno oltre 2.5 nel 2050), il 10% in Europa (742 milioni che saranno 716 nel 2050), il 9% in America latina e Caraibi (646 milioni che saranno 780 nel 2050), e il rimanente 6% in Nord America (361 milioni che saranno 435 nel 2050) e in Oceania (41 milioni che saranno 57 nel 2050). Oggi la popolazione cresce di 1.10 % annuo con 83 milioni di esseri umani che si aggiungono alla popolazione mondiale ogni anno.
Se pensiamo che la popolazione umana ha raggiunto il primo miliardo agli inizi del 1800, per poi iniziare il Novecento con 1.6 miliardi e terminarlo con 6.1 miliardi (con una crescita quindi, in un solo secolo, di quasi 5 miliardi) raggiungendo ora quasi i 7.6 miliardi, dati che spesso dimentichiamo e che purtroppo sono spesso poco noti ai nostri politici ed economisti, siamo in grado di comprendere meglio la straordinaria peculiarità della situazione attuale che ci vede attori dei più significativi cambiamenti globali in atto, a iniziare dal climate change, e che ha indotto una parte importante della comunità scientifica ad affermare che ci troviamo in un nuovo periodo geologico, l’Antropocene.
Più aumenta la popolazione, più incrementano i flussi di materia prima e di energia utilizzati, più si modificano profondamente i sistemi naturali con modalità basate su di una impostazione profondamente errata del nostro sistema economico che ha di fatto trasformato i processi circolari della natura che esistono da miliardi di anni in processi lineari, al cui “termine” ne risultano scarti, rifiuti, inquinamento.
Recentemente è stata indicata anche un’equazione dell’Antropocene, che certifica come, allo stato attuale, l’intervento umano causa complessivamente effetti così profondi nei cambiamenti del sistema Terra superiori a quelli dovuti alle forze di origine astronomica, geofisica e interna allo stesso sistema (vedasi Gaffney O. e Steffen W., 2017, The Anthropocene equation, The Anthropocene Review, DOI: 10.1 177/2053019616688022 ).
Nel proporre l’equazione gli studiosi indicano che, nell’arco del tempo della storia del nostro pianeta, il tasso dei cambiamenti subiti dal Sistema Terra sono stati dovuti agli effetti di forze astronomiche (A), geofisiche (G) e ai feedback causati dalle dinamiche interne (I) del sistema Terra stesso. Nel recente passato, in particolare nel periodo del Quaternario (quindi negli ultimi 2.58 milioni di anni), si sono verificati episodi legati a variazioni cicliche dell’orbita della Terra accoppiate ad alcune forze astronomiche, come la modificazione dell’irradiazione solare, che hanno portato ad alcune oscillazioni cicliche di periodi glaciali-interglaciali, con periodicità che si sono intervallate dai 40.000 ai 100.000 anni.
Attualmente la situazione di stabilità dinamica che si è andata realizzando negli ultimi secoli del periodo dell’Olocene (iniziato circa 11.700 anni fa) è messa seriamente in crisi dal massiccio intervento umano sui sistemi naturali (definito H nell’equazione).
Pertanto oggi il fattore H viene ritenuto dominante nell’equazione rispetto a A, G e I.
In questi ultimi secoli dalla Rivoluzione industriale ad oggi, l’umanità è andata sempre di più urbanizzandosi, ha modificato e trasformato profondamente ecosistemi naturali e impoverito la biodiversità presente sulla Terra, attivato sistemi di produzione e consumo molto articolati ed ha prodotto straordinari avanzamenti nella tecnologia, tutti fattori che la hanno condotta sempre di più in una dimensione fisica e culturale di allontanamento dalle dinamiche evolutive dei sistemi naturali, dalle quali è dipesa e dipende e con le quali ha convissuto per le decine di migliaia di anni precedenti.
Oggi ci stiamo appropriando del 25% della produttività primaria netta (definita Human appropriation of net primary production, Hanpp) cioè dell’energia raggiante solare utilizzata dalla vegetazione terrestre e trasformata in materia organica resa disponibile al resto della vita sulla Terra. Questa percentuale si ritiene possa raggiungere il 27-29% entro il 2050 se il nostro livello di impatto sui metabolismi naturali dovesse proseguire con i ritmi attuali, giungendo al 44% nel caso di un massiccio utilizzo di bioenergie prodotte dai suoli coltivati (vedasi Krausmann F., et al. 2013, Global human appropriation of net primary production doubled in the 20th century, Proc. Nat. Acad. Sciences 110; 25 : 10324 – 10329).
Le dimensioni del nostro impatto si sono andate particolarmente intensificando negli ultimi 60 anni, in un periodo che gli studiosi definiscono non a caso “la grande accelerazione” (vedasi Steffen W. et al., 2015, The trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration, Anthropocene Review, DOI: 10.1177/2053019614564785) che è stata ben illustrata dagli esperti John McNeill e Peter Engelke nel loro libro “The great acceleration. An environmental history of the Anthropocene since 1945”, Harvard University Press, pubblicato nel 2016.
I cambiamenti indotti dall’intervento umano sulla superficie terrestre hanno esercitato impatti significativi per la struttura e le funzioni degli ecosistemi che costituiscono una parte rilevante del Sistema Terra, anche per quanto riguarda le ricadute sul benessere stesso dell’umanità. Questo intervento ha avuto luogo in maniera molto pesante nei confronti dei delicati e complessi equilibri dinamici del suolo. Il cambiamento nelle modificazioni dell’utilizzo dei suoli è emerso sempre di più come un elemento fondamentale del cambiamento ambientale globale (global environmental change) e della sostenibilità tanto che molti studiosi hanno impostato le basi per una scienza dell’utilizzo dei suoli (Science of Land Change).
Nel 2002 Eric Sanderson della Wildlife Conservation Society con un gruppo di studiosi ha elaborato una prima mappa della “impronta umana” (Human footprint) sul pianeta (vedasi Sanderson E. W. et al., 2002, The Human Footprint and the Last of the Wild, BioScience, 52, 10; 891-904, e Kareiva P. et al., 2007, Domesticated Nature: Shaping Landscapes and Ecosystems for Human Welfare, Science, 316; 1866-1869).
L’impronta umana costituisce la modificazione fisica della superficie terrestre dovuta all’intervento umano, verificabile con i dati a disposizione, in particolare quelli derivati dai satellite. Recentemente lo stesso Sanderson ed altri studiosi hanno aggiornato la situazione dei dati sulla Human footprint (vedasi Venter O. et al., 2016, Sixteen years of change in the global terrestrial human footprint and implications for biodiversity conservation, Nature Communication, doi: 10.1038/ncomms125558). Il lavoro, perfezionando quello precedente e utilizzando i dati sulle infrastrutture, la copertura del suolo e l’accesso umano alle aree naturali ha costruito una misura standardizzata dell’impronta umana sugli ambienti terrestri con una risoluzione di 1 kmq e con una serie temporale dal 1993 al 2009. Ne risulta che il 75% della superficie delle terre emerse stanno avendo esperienza di una pressione umana riscontrabile e misurabile.
Uno degli ultimi paper scientifici sulla produzione della plastica a livello mondiale ha fornito dati veramente preoccupanti (vedasi Geyer R., Jambeck J.R. e K. Lavender Law, 2017, Production, use, and fate of all plastics ever made, Science Advances, 27 July 2017). È stata calcolata in 8,3 miliardi di tonnellate la produzione di plastica mondiale da quando questi prodotti esistono dagli anni Cinquanta ad oggi (il calcolo riguarda il 2015), si ritiene che 2,5 miliardi di tonnellate, il 30% della plastica prodotta, sia ancora in uso mentre 6,3 miliardi di tonnellate sono costituiti da rifiuti, di cui il 9% (circa 600 milioni di tonnellate) è stato riciclato, il 12% (circa 800 milioni di tonnellate) è stato incenerito, mentre 4,9 miliardi di tonnellate sono stati accumulati nelle discariche e dispersi negli ambienti naturali. Se continua l’attuale tasso di produzione di plastica e le attuali modalità di gestione dei rifiuti di plastica, ci dicono gli scienziati che, nel 2050, potremo avere 12 miliardi di tonnellate di rifiuti di plastica nelle discariche e nei sistemi naturali.
Nel solo 2010 si stima che da 4 a 12 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica sono finiti negli ambienti marini. La plastica è ormai diventata così ubiqua nei sistemi naturali della Terra che viene presa seriamente in considerazione come uno degli indicatori che costituiscono il segnale dell’entrata dell’epoca geologica dell’Antropocene, come è stato indicato in un ottimo paper di numerosi importanti scienziati che si stanno occupando di documentare scientificamente l’epoca dell’Antropocene (vedasi Zalasiewicz J. et al., 2016, The geological cycle of plastics and their use as a stratigraphic indicator of the Anthropocene, Anthropocene, 13; 4-17).
Riorientare la gestione del nostro mondo verso la sostenibilità è una sfida epocale e senza precedenti per l’umanità, una sfida che dovrebbe essere al primo posto delle agende politiche ed economiche internazionali.
Purtroppo continuiamo ad assistere ad analisi obsolete dei problemi del mondo e a visioni ancora pesantemente determinate da una cultura del breve termine, legata alle scadenze elettorali dei politici, alle trimestrali di performance delle aziende per i chief executive e ai risultati settimanali degli andamenti delle borse che si sono distaccati profondamente dal valore reale e concreto del capitale naturale e del capitale umano senza i quali non esiste la possibilità di sviluppo e progresso.
L’Agenda 2030 con i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, approvata da tutti i paesi del mondo nel 2015 alle Nazioni Unite, e l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi per i cambiamenti climatici siglato in occasione della Cop21 della Convenzione quadro Onu sul climate change, costituiscono strumenti molto importanti per imboccare un sentiero giusto per il futuro dell’umanità.
Riuscire a garantire agli attuali oltre 7,5 miliardi di esseri umani che saranno 9,8 miliardi nel 2050, energia, materie prime, cibo, acqua, case, infrastrutture, lavoro, equità e giustizia, mantenendo i delicati equilibri dinamici della biosfera, grazie alla quale esistiamo e dalla quale dipendiamo, richiede capacità innovative, creative, anticipative che mai abbiamo sinora sperimentato nella storia dell’umanità.
D’altra parte, i decenni di ricerca su questi temi confermano che è impossibile avviare percorsi di sostenibilità dei nostri modelli di sviluppo se non manteniamo sani, vitali e resilienti i sistemi naturali che ci consentono di respirare, di alimentarci, di utilizzare tutte le risorse di cui abbiamo bisogno per vivere.
È perciò indispensabile collocarsi in uno “spazio sicuro e operativo per l’umanità” (indicato dai planetary boundaries), uno spazio di utilizzo delle risorse che si mantenga nei limiti biofisici del nostro Pianeta, garantendo i bisogni fondamentali per ogni essere umano, con equità e giustizia sociale. Johan Rockstrom, direttore dello Stockholm resilience centre è stato tra i leader di questa proposta illustrata in tanti lavori scientifici e nell’ottimo volume di Rockstrom (“Grande mondo, piccolo pianeta”, Edizioni Ambiente) brillantemente ampliato alle dimensioni sociali (indicate dalle social foundations) dall’ottimo lavoro dell’economista Kate Raworth che ha illustrato il suo lavoro nel bellissimo volume “L’economia della ciambella”, Edizioni Ambiente, uscito un paio di mesi fa: l’applicazione dell’SOS (Safe and operating Space, lo spazio sicuro ed operativo per l’umanità) integrato dalla doughnut economics (l’economia della ciambella) dovrebbe diventare una sorta di bussola per tutti, governi, imprese, società civile. In questo modo possiamo ancora farcela e la sostenibilità potrà allora essere realmente possibile.