L’economia della “ciambella”: come rendere operativa la sostenibilità
Ospitiamo di seguito alcuni paragrafi dell’introduzione di Gianfranco Bologna e Enrico Giovannini “L’economia della ciambella: come rendere operativa la sostenibilità” al volume di Kate Raworth “L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo”, edizioni Ambiente.
Siamo in un periodo senza alcun precedente nella storia dell’umanità. Mai siamo stati così numerosi sulla Terra, mai abbiamo avuto una disparità così elevata tra i pochissimi che possiedono tantissimo e i tantissimi che possiedono pochissimo[1], mai abbiamo stravolto con questa ampiezza e in tempi così rapidi i sistemi naturali senza i quali non possiamo vivere, mai abbiamo messo a rischio le opzioni evolutive di tutti gli altri esseri viventi che con noi condividono ora la storia del nostro pianeta, mai abbiamo così profondamente intaccato le basi che ci consentono di vivere, di avere benessere, prosperità e sviluppo.
Gli effetti delle attività umane sul nostro pianeta sono oggi ritenuti equivalenti a quelli prodotti dalle grandi forze della natura che hanno causato significativi mutamenti nel nostro sistema Terra nell’arco dei suoi 4.6 miliardi di anni di vita, tanto da far proporre alla comunità scientifica che si occupa di scienze del Sistema Terra e dei suoi cambiamenti globali, l’indicazione di un nuovo periodo geologico, definito Antropocene[2]. Recentemente, autorevoli studiosi delle scienze dei cambiamenti globali (Global Changes) hanno elaborato l’equazione dell’Antropocene, che certifica come, allo stato attuale, l’intervento umano causa complessivamente effetti nei cambiamenti del sistema Terra profondi e superiori a quelli dovuti alle forze di origine astronomica, geofisica e interna allo stesso sistema[3]. […]
L’umanità, grazie alle straordinarie capacità della sua evoluzione culturale è andata progressivamente allontanandosi dalla natura, cioè dall’insieme dei sistemi naturali dai quali deriva e proviene, frutto degli straordinari processi evolutivi del fenomeno vita sulla nostra Terra e senza i quali non può sopravvivere. Si è trattato di un processo lungo e complesso, fortemente accentuatosi dall’inizio della Rivoluzione Industriale, intorno al 1750, rispetto al periodo complessivo di circa 200.000 – 300.000 anni che costituisce il periodo di vita della nostra specie (l’Homo sapiens) sulla Terra. In altri termini, nell’ambito di un arco temporale di un paio di secoli e mezzo la maggioranza dell’umanità è vissuta in una dimensione culturale che ha considerato la natura sempre di più come una fonte inesauribile di risorse da utilizzare e come un ricettacolo, ritenuto altrettanto inesauribile, capace di metabolizzare rifiuti e scarti. Non solo, ma in questo periodo l’umanità è andata sempre di più urbanizzandosi, ha attivato sistemi di produzione e consumo molto articolati e ha prodotto straordinari avanzamenti nella tecnologia, tutti fattori che la hanno condotta sempre di più in una dimensione fisica e culturale di allontanamento dalle dinamiche evolutive dei sistemi naturali, dalle quali è dipesa e dipende e con le quali ha convissuto per le decine di migliaia di anni precedenti. […]
Le dimensioni del nostro impatto si sono andate particolarmente intensificando negli ultimi 60 anni, in un periodo che gli studiosi definiscono “la grande accelerazione”[4], la quale ha determinato effetti devastanti […] Questo progressivo allontanamento fisico e culturale dalla natura, “immersi” quotidianamente nei nostri sistemi urbani e artificiali, ci ha anche fatto pensare di poterne fare a meno, come se non ne avessimo bisogno, come se potessimo essere indipendenti da essa. La verità, come la scienza ci dimostra chiaramente, è che gli esseri umani sono strettamente dipendenti dai sistemi naturali e fortemente collegati ad essi. L’intero fenomeno della vita sulla Terra e quindi anche noi che ne siamo un prodotto, costituisce un intricato, complesso ed affascinante sistema nel quale siamo tutti interconnessi. […]
La sfida che l’umanità ha ora di fronte è realmente una sfida epocale. La pressione umana sui sistemi naturali è completamente insostenibile e, con i grandi cambiamenti globali che abbiamo indotto nella natura, la nostra stessa civiltà è a rischio. La popolazione umana sulla Terra ora è di oltre 7 miliardi e 400 milioni, più di 9 volte gli 800 milioni di persone che si stima vivessero nel 1750, data indicata come inizio della Rivoluzione Industriale. Questa cifra dovrebbe raggiungere, seguendo la variante media indicata dalle Nazioni Unite nei suoi “World Population Prospects” (che è la più attendibile), i 9.7 miliardi di abitanti nel 2050. La popolazione mondiale continua a crescere a un tasso di circa 83 milioni l’anno[5].
Le dimensioni dell’economia mondiale sono anch’esse senza precedenti; il prodotto mondiale lordo viene stimato attualmente in 91.000 miliardi di dollari che sono almeno 200 volte quelle del 1750 (anche se si tratta di un confronto difficile perché buona parte dell’economia mondiale è oggi costituita da beni e servizi che 250 anni fa non esistevano) [6]. […]
Disponiamo ormai della certezza scientifica che il sistema economico sin qui perseguito, diffuso nelle società umane di tutto il mondo è in chiaro conflitto con la realtà biofisica dei nostri sistemi naturali. Questo aspetto costituisce oggi il problema maggiore che l’umanità si trova ad affrontare e la ricerca delle soluzioni per ottenere una relazione armonica tra i sistemi naturali ed i sistemi sociali, la sostenibilità, dovrebbe essere posta come primo punto dell’ordine del giorno dell’agenda politica internazionale.
Per essere veramente operativo lo sviluppo sostenibile richiede un reale cambiamento della nostra visione e della nostra azione concreta nel rapporto che abbiamo con il mondo naturale. Oggi abbiamo una consapevolezza sempre più chiara dei limiti ecologici globali. Il nostro sistema economico deve inevitabilmente agire nell’ambito dei limiti biofisici che presentano i sistemi naturali del nostro pianeta. Questo significa, con grande chiarezza, che abbiamo bisogno di un nuovo modo di fare economia.
I sistemi economici delle società umane non possono costituire il sistema centrale di riferimento del nostro mondo quotidiano come avviene oggi. Questi sistemi sono, in realtà, dei sottosistemi del più grande ecosistema globale del pianeta (la biosfera) e non possono quindi essere gestiti come se fossero indipendenti da esso. L’umanità deriva e dipende dalla natura, ne è parte integrante ed è costituita dagli stessi elementi fondamentali che compongono l’intero universo, la Terra, e lo stesso fenomeno della vita sul nostro pianeta e non può esistere al di fuori di essa. I modelli economici perseguiti dalle società umane non possono, quindi, operare al di fuori dei limiti biofisici che i sistemi naturali presentano.
Per questo la crescita della popolazione e della produzione non devono spingersi oltre le capacità ambientali di rigenerazione delle risorse e di assorbimento dei rifiuti. Come ricorda Herman Daly, ciò che è necessario a questo punto non è un’analisi sempre più raffinata di una visione difettosa, ma una nuova visione. Egli ci ricorda che uno sviluppo sostenibile, uno sviluppo senza crescita quantitativa, non implica la fine delle scienze economiche ma, al contrario, l’economia come disciplina diviene ancora più importante. Si tratta però di un’economia raffinata e complessa dedita al mantenimento, del miglioramento qualitativo, della condivisione e dell’adattamento ai limiti naturali. E’ un’economia del “meglio”, non del “più grande”. […]
Purtroppo le nostre impostazioni culturali hanno strutturato la conoscenza e quindi anche le modalità di fare ricerca e le università in un modo che non corrisponde a quello in cui funziona la realtà. Non possiamo sperare di risolvere i problemi ambientali come il cambiamento climatico con un approccio settoriale attraverso discipline scientifiche frammentate e isolate. In realtà, le ricerche dovrebbero mirare a una comprensione sistemica il più ampia possibile. Nonostante una conoscenza sempre più approfondita dei modi in cui funziona il nostro pianeta, non stiamo in realtà facendo nessun progresso scientifico in direzione di un futuro più sostenibile[7]. Abbiamo bisogno di una scienza interdisciplinare che si focalizzi sulla risoluzione dei problemi. Giorno dopo giorno, ci sono sempre più studi che cercano di integrare scienze sociali, studi umanistici e scienze naturali, ma rimane tanto lavoro da fare. Fortunatamente sono state fondate organizzazioni di ricerca ambientale multidisciplinari e in queste realtà è più facile aggregare scienziati che comprendano pienamente le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano pienamente le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta. […]
I problemi che abbiamo di fronte sono così complessi che richiedono una forte collaborazione oltre i confini disciplinari. […] La sostenibilità è costituita da tanti elementi che devono essere sempre tenuti in connessione tra loro e già questo costituisce una notevole sfida alla nostra mentalità abituata a pensare seguendo logiche lineari di causa ed effetto. Volendo semplificare il concetto in una semplice definizione, possiamo affermare che sostenibilità vuol dire imparare e vivere, in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani e in armonia con la natura, entro i limiti fisici e biologici dell’unico pianeta che siamo in grado di abitare: la Terra.
Oggetto fondamentale delle ricerche sulla sostenibilità sono i Social-Ecological Systems (SES), cioè la capacità di comprendere le interazioni e i legami esistenti tra gli esseri umani e i sistemi naturali e comprendere come sia possibile gestirli al meglio.
Nell’analisi di questa situazione si colloca la straordinaria avventura intellettuale e operativa di Kate Raworth, molto attenta a incrociare le conoscenze scientifiche con quelle sociali ed economiche per concretizzare percorsi di sostenibilità dei nostri modelli di sviluppo. L’avventura inizia nella seconda metà del primo decennio del 2000, con la prima pubblicazione scientifica di numerosi autorevoli studiosi dediti alla Global Sutainability e alle scienze del Sistema Terra, che hanno cercato di indicare le dimensioni di uno spazio operativo sicuro (Safe and Operating Space) per l’umanità indicando i Planetary Boundaries (“confini planetari”) entro cui muoversi.
Il primo lavoro sull’individuazione di tali confini che l’intervento umano non può superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali[8] è del 2009. Si tratta di una tematica che è stata precedentemente affrontata da vari studiosi, basti qui ricordare le straordinarie intuizioni degli studiosi che hanno predisposto rapporti per il Club di Roma sin dal 1972 sui limiti del nostro sviluppo rispetto ai limiti biofisici del pianeta [9] e come dall’inizio degli anni Novanta è stata presentata l’ipotesi dell’Environmental Space, cioè lo “spazio ambientale” che ciascun individuo può avere a disposizione per l’utilizzo delle risorse e per la possibilità di produrre degli scarti [10].
I “limiti“ di cui parliamo riguardano nove grandi problemi planetari dovuti alla forte pressione umana, tra di loro strettamente connessi e interdipendenti: il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità e quindi dell’integrità biosferica, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la diffusione di aerosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici. Per quattro di questi e cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo e le modificazioni dell’uso dei suoli ci troviamo già oltre il confine indicato dagli studiosi. Complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi, possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio e in questo modo si definisce quell’area come “uno spazio operativo sicuro per l’umanità” (Safe and Operating Space, S.O.S.). […]
Il benessere umano dipende, oltre che dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse in un buono stato naturale complessivo che non deve oltrepassare alcune soglie, anche, e in misura uguale, dalle necessità dei singoli individui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità. Le norme internazionali sui diritti umani hanno sempre sostenuto per ogni individuo il diritto morale a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. Quindi, come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, una sorta di “tetto” oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile e pericoloso per l’intera umanità, Kate Raworth ci indica l’esistenza di un confine interno al prelievo di risorse, un “livello sociale di base” (un sorta di “pavimento”) sotto il quale la deprivazione umana diventa inaccettabile e insostenibile. […]
In questa importante riflessione la Raworth individua così 11 priorità sociali, quali la disponibilità del cibo, dell’acqua, dell’assistenza sanitaria, di reddito, dell’istruzione, di energia, di lavoro, del diritto di espressione, della parità di genere, dell’equità sociale e della resilienza agli shock, indicandole come una base sociale esemplificativa (il “pavimento”) e incrociandole quindi con i confini planetari (il “tetto”) del nostro SOS che, a questo punto oltre ad essere “sicuro” è anche “giusto”. Si viene così a formare, tra questi diritti di base sociali (il “pavimento sociale”) e i confini planetari (i “tetti ambientali”), una fascia circolare a forma di ciambella che può essere definita sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità.
Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo i fautori dei diritti umani hanno sottolineato l’imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo indispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l’economia globale entro i limiti ambientali. Questo spazio è una combinazione dei due, creando una zona che rispetti sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale, riconoscendo anche l’esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i molteplici confini e al loro interno.
Ma cosa significa muoversi entro lo spazio operativo sicuro ed equo per l’umanità? La grande sfida per raggiungere la sostenibilità del nostro sviluppo nell’immediato futuro è proprio quella di riuscire a comprendere quale sia il numero ottimale della nostra popolazione e le modalità sociali ed economiche necessarie a rispettare le capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali che ci sostengono. […]
Sino ad ora le nostre società hanno perseguito modelli di sviluppo socio-economico che si sono basati sulla crescita continua dell’utilizzo degli stock e dei flussi di materia ed energia da trasferire dai sistemi naturali a quelli sociali. Al centro dei processi economici non è stato collocato il capitale fondamentale che ci consente di perseguire il benessere e lo sviluppo delle nostre stesse società e cioè il capitale naturale, costituito dalla straordinaria ricchezza della natura e della vita sul nostro pianeta. Non avendo sin qui fornito un valore ai sistemi idrici, alla rigenerazione del suolo, alla composizione chimica dell’atmosfera, alla ricchezza della diversità biologica, alla fotosintesi, solo per fare qualche esempio, le nostre società presentano ormai livelli di deficit nei confronti dei sistemi naturali molto superiori ai livelli di deficit che l’attuale crisi economico e finanziaria che stiamo attraversando dal 2008, registra nelle contabilità economiche in tutti i paesi del mondo. […]
Da diversi decenni ci si interroga sui crescenti effetti dei nostri interventi sui sistemi naturali e sulle conseguenze che ne derivano, anche per lo sviluppo e il benessere delle nostre generazioni e di quelle future, e quindi sulla necessità che il nostro mondo venga considerato realmente, anche in termini giuridici, uno straordinario bene comune, un grande “condominio Terra” dove tutti dobbiamo convivere e trarne prosperità e benessere. Oggi le dottrine giuridiche riconoscono che le norme internazionali registrano un errore teorico strutturale nel loro approccio verso i beni ecologici globali e la loro dimensione intergenerazionale. […]
Ora abbiamo bisogno di un nuovo approccio capace di chiudere i vuoti esistenti tra l’organizzazione delle istituzioni internazionali e la realtà delle dinamiche del Sistema Terra, un approccio capace di tenere in conto la dimensione non territoriale delle funzioni del Sistema Terra che è in ovvia relazione con territori tangibili di diversi stati, ma non è confinato in nessuno stato in particolare e non può essere considerato quindi una sottrazione al potere di sovranità nazionale che è considerata intoccabile dal diritto internazionale. […]
Oggi il Sistema Terra, nella dimensione giuridica internazionale può essere considerato un oggetto legale non identificato (an Unidentified Legal Object – ULO) ed inevitabilmente questo stato di cose si riscontra anche nella prassi economica corrente. E’ necessario che le nazioni del mondo riconoscano la necessità di agire concretamente per mantenere la vitalità del Sistema Terra che non sia ristretto soltanto ad alcuni spazi oggi riconosciuti “beni comuni”, come parte dei mari aperti o di aree come l’Antartide, ma che invece comprendano le complessive dimensioni dei sistemi naturali vitali e resilienti oggi soggetti alle giurisdizioni nazionali.
Si tratta di una sfida culturale straordinaria che recentemente alcuni studiosi di diritto internazionale e di scienze del Sistema Terra hanno proposto di delineare in un vero e proprio trattato per governare al meglio lo spazio sicuro ed operativo per l’umanità ricordato prima. Non a caso questa proposta è stata definita “SOS Treaty” (il trattato del Safe and Operating Space)[11].
È necessario che il concetto di un patrimonio comune per l’umanità costituito proprio dal mantenimento della vitalità e della resilienza del Sistema Terra stesso, venga riconosciuto da tutti gli stati del mondo. Importanti passi in avanti sono stati compiuti nell’arco degli anni per cercare di inserire concetti simili, legati comunque a sottolineare il fatto che esistono beni che sono comuni per tutta l’umanità e non privatizzabili e sottoponibili esclusivamente alle giurisdizioni nazionali, in atti formali significativi, come in parte ha avuto luogo nella cosidetta legge sui mari dell’ONU, ma siamo ancora lontani da quella rivoluzione culturale necessaria ad affrontare la complessità del mondo attuale [12].
Un modello legale per l’Antropocene richiede una regolazione responsabile per assicurare la promozione e la protezione degli interessi comuni attraverso la costruzione di nuove forme giuridiche che rappresentino un nuovo modo per rappresentare gli interessi di tutta l’umanità, nel presente e nel futuro. L’economia della ciambella di Kate Raworth costituisce uno strumento fondamentale per avviare questi processi e tutti noi possiamo essere protagonisti di questo straordinario impegno.
di Gianfranco Bologna ed Enrico Giovannini
[1] Vedasi www.weforum.org, il rapporto di Oxfam “An economy for the 99%” scaricabile dal sito https://www.oxfam.org/en/research/economy-99
[2] Crutzen P.J. e Stoermer E.F., 2000, The Anthropocene, Global Change Newsletter, International Geosphere Biosphere Program (IGBP), 41: 17 – 18, Waters C.N., Zalasiewicz J.A. e Williams M. et al., (eds), 2014, A Stratigraphical Basis for the Anthropocene, Geological Society of London, Series A, Waters C.N. et al., 2016, The Anthropocene is functionally and stratigraphically distinct from the Holocene, Science, 351, DOI: 10.1126/science.aad2622
[3] Gaffney O. e Steffen W., 2017, The Anthropocene equation, The Anthropocene Review, DOI: 10.1 177/2053019616688022 .
[4] Steffen W. et al., 2015, The trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration, Anthropocene Review, DOI: 10.1177/2053019614564785
[5] L’ultimo “World Population Prospects: the 2015 Revision” della Population Division delle Nazioni Unite è scaricabile dal sito http://www.un.org/en/development/desa/publications/world-population-prospects-2015-revision.html
[6] Sachs J., 2015, L’era dello sviluppo sostenibile, Edizioni Università Bocconi.
[7] Rockstrom J. e Wijkman A., 2014, Natura in bancarotta, Edizioni Ambiente e Rockstrom J. e Klum M., 2015, Grande mondo, piccolo pianeta, Edizioni Ambiente
[8] Rockstrom J. et al, 2009, A Safe Operating Space for Humanity, Nature, 461; 472-475. Vedasi anche il lavoro più esteso apparso su “Ecology and Society”, Rockstrom J. et al., 2009, Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, Ecology and Society, 14 (2): 32 on line www.ecologyandsociety.org/vol14/iss2/art32 e poi Steffen W. et al., 2015, Planetary Boundaries: Guiding Human Development on a Changing Planet, Science, 347, doi:10.1126/science.1259855
[9] Vedasi i tre rapporti sui limiti Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J. e Behrens III W. W., 1972, I limiti dello sviluppo, Mondadori. Meadows D. H., Meadows D.L., Randers J., 1993, Oltre I limiti dello sviluppo, Il Saggiatore. Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J., 2006, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori.
[10] Vedasi Buitenkamp M., Venner H. e Warms T. (a cura di), 1993, Action Plan. Sustainable Netherlands, Friends of the Earth Netherlands ; Amici della Terra, 1995, Verso un’Europa sostenibile, uno studio dell’Istituto Wuppertal, Maggioli Editore e Carley M. e Spapens P., 1999, Condividere il mondo. Equità e sviluppo sostenibile nel ventesimo secolo, Edizioni Ambiente.
[11] Vedasi Magalhaes P. et al., 2016, SOS Treaty. The Safe and Operating Space Treaty, a New Approach to Managing Our Use of the Earth System, Cambridge Scholars Publishing e il sito dell’alleanza internazionale di ricerca Earth System Governance www.earthsystemgovernance.org
[12] Il sito www.commonhomeofhumanity.org riassume i concetti di base del volume dedicato all’SOS Treaty.