Restano criticità per l’impiego come fertilizzanti di biochar e fanghi di depurazione
Più digestori anaerobici contro l’impoverimento dei nostri suoli agricoli
Oggi importanti superfici coltivate nella pianura emiliano-romagnola presentano valori di carbonio organico inferiori allo 0,8%: il 2% è il livello minimo per una buona fertilità dei terreni
[13 Giugno 2022]
Il carbonio organico è una componente essenziale del suolo, costituita essenzialmente da residui vegetali e animali decomposti, fermentati o comunque trasformati dai microorganismi presenti nel terreno.
Immagazzinato in un determinato volume di suolo, il carbonio organico – oltre a rappresentare un importante indice di qualità, indispensabile per l’agricoltura – ne esprime anche la capacità di sequestrare CO2 dall’atmosfera. Entrambe qualità che stiamo perdendo, in Europa e in particolar modo nella pianura padana, che ospita larga parte dell’agricoltura e degli allevamenti nazionali.
Un problema che non a caso è stato al centro del convegno Le nuove sfide dell’agricoltura: lo stoccaggio del carbonio nei suoli, svoltosi nei giorni scorsi presso la Regione Emilia-Romagna, ed organizzato dallo stesso assessorato regionale all’Agricoltura insieme all’Accademia nazionale di agricoltura.
Le premesse del convegno sono quelle esplicitate dai più recenti dati Ue: i terreni coltivati presentano concentrazioni di carbonio organico molto basse (17,8 g kg-1) rispetto a praterie e vegetazione naturale (40,3 e 77,5 g kg-1), stimando che circa il 75% di tutte le terre coltivate dell’Ue abbiano concentrazioni in carbonio organico inferiore al 2%, ritenuta la soglia minima per una buona fertilità dei terreni.
E in Italia va peggio: nella sola pianura emiliano-romagnola, importanti superfici coltivate presentano valori di carbonio organico inferiori allo 0,8%. Numeri questi che attivano un preoccupante campanello d’allarme sulla salute dei nostri suoli agricoli e la loro capacità di riduzione del carbonio in atmosfera.
Come mai? Perché dagli anni Sessanta del Novecento, sia in Europa che in Italia, è iniziato un lento declino della qualità del suolo agricolo data dall’introduzione della modalità di “fertilizzazione artificiale del suolo” mediante concimazione chimica, che ha limitato progressivamente quella organica, portando a un degrado della stabilità di struttura del suolo evidenziato oggi da un calo consistente del contenuto in carbonio organico e dalla facile dispersione dei principali elementi nutritivi per le piante.
Ecco spiegato come mai l’Ue, nello stilare la strategia Farm to Fork per un sistema agroalimentare equo, salutare e rispettoso dell’ambiente, sollecita una consistente riduzione di pesticidi (50%), fertilizzati chimici (20%) e sostanze antimicrobiche (50%) entro il 2030 e, nel contempo, il contenimento almeno del 50% delle perdite dei nutrienti, ed in particolare di carbonio organico.
Reintegrare la fertilità del suolo significa prioritariamente ricostituirne la struttura attraverso l’applicazione di buone pratiche agricole e l’apporto sistematico e razionale di materiali organici idonei, con tempi lunghi di sedimentazione delle sostanze.
Il problema è che in certi casi molti «utilizzano strumenti inutili o nocivi», utilizzando materiali che per il solo fatto di contenere carbonio vengono camuffati come ammendanti e fertilizzanti.
Sotto questo profilo, le maggiori preoccupazioni dell’Accademia nazionale di agricoltura si concentrano sul biochar e sull’impiego dei fanghi di depurazione come fertilizzanti.
Il “biochar”, alla lettera “carbone biologico” (il cui utilizzo come ammendate in agricoltura è stato regolato con modifica dell’allegato 2 del D.lgs 75/2010), essendo un materiale «ottenuto per pirolisi di biomassa, rappresenta uno strumento poco fruibile dai microrganismi con il rischio di venire progressivamente accumulato nel suolo come inerte, modificandone le caratteristiche fisiche».
Per l’accademia sono frequenti anche «le criticità dovute all’utilizzo come fertilizzanti in agricoltura di fanghi di depurazione, causa la possibile presenza di composti organici nocivi quali inquinanti organici persistenti (Pops), interferenti endocrini, sostanze farmaceutiche, droghe d’abuso, metalli pesanti».
Per questo, secondo l’Accademia l’attenzione va invece posta sugli «ammendamenti organici come letame, compost e liquami animali, per la loro ricchezza in materia organica, la cui frazione stabile contribuisce a costituire l’humus, che a sua volta migliora le caratteristiche del suolo».
Il loro impiego permetterebbe anche di dare risposta anche alla gestione dei letami e liquami provenienti dagli allevamenti zootecnici, che «vengono considerati responsabili di almeno il 20% dell’emissione di gas climalteranti, a cui si aggiunga che l’Italia è tra i Paesi della comunità in infrazione nell’applicazione della Direttiva Nitrati. Si tratta quindi di investire in tecnologie non inquinanti in grado di simulare l’antico sistema delle concimaie, quali l’utilizzo di impianti di digestione anaerobica in grado di trattare liquami zootecnici, residui organici agroindustriali e frazioni organiche da raccolta differenziata di rifiuti urbani. L’opportunità di tale tecnologia – sottolineano dall’Accademia nazionale di agricoltura – non sta solo nel recupero di energia rinnovabile come il biogas, ma anche nel controllare le emissioni maleodoranti e stabilizzare le biomasse prima del loro utilizzo agronomico, rispondendo agli indirizzi di riduzione dell’inquinamento atmosferico da gas serra, di cui il metano è uno dei principali responsabili. Il regolamento CE n. 1774/2002 individua nella digestione anaerobica uno dei processi biologici che consentono il riciclo dei sottoprodotti di origine animale con la produzione di digestato da apportare al suolo come fertilizzate o ammendante».