Biodiversità italiana a rischio nella Giornata mondiale della biodiversità

In pericolo le farfalle, buone notizie per orsi marsicani e camosci appenninici

[22 Maggio 2019]

Secondo il dossier “Biodiversità a Rischio” lanciato oggi da Legambiente in occasione della giornata mondiale della biodiversità «L’Italia non è solo il Paese europeo più ricco di biodiversità, ma è anche quello che vanta un gran numero di farfalle. Ne conta 289 specie: in particolare la Sardegna e l’Arcipelago toscano ospitano numerose specie endemiche, cioè che non vivono in nessun altro luogo al mondo, e molte farfalle tipiche del continente si aggiungono alle faune insulari creando combinazioni uniche di specie. Preziosi e principali impollinatori, le farfalle insieme alle api, ai sifiridi e alle falene, sono un elemento di forza per gli ecosistemi sani, sono specie fondamentali dal punto di vista economico e sociale, e sono le sentinelle dell’ambiente. Avvertono infatti in maniera forte le conseguenze del cambiamento climatico (che influisce ad esempio sul periodo di fioritura delle piante del cui nettare si nutrono ad esempio gli insetti), nonché dell’uso spinto della chimica, cioè dei pesticidi, in agricoltura intensiva.  In Europa, l’84% delle specie coltivate e il 78% delle specie di fiori selvatici dipendono, almeno in parte, dall’impollinazione animale. Secondo la Commissione Europea quasi 15 miliardi di euro della produzione agricola annua dell’UE sono attribuiti direttamente all’impollinazione ad opera degli insetti. Eppure queste specie oggi, insieme a tanti altri animali selvatici, sono in pericolo».

Il dossier del Cigno Verde ribadisce che «L’Italia pur essendo il paese europeo più ricco di biodiversità – custodisce circa il 37% del totale della fauna euromediterranea – dal 2000 ha visto un continuo declino delle farfalle. Nello specifico, delle 289 specie di ropaloceri valutate dalla Lista Rossa Iucn delle farfalle, una – la Lycaena helle – è estinta nella regione in tempi recenti (1926); 18 (pari al 6.3% delle specie valutate) sono quelle minacciate di estinzione e per 2 specie i dati disponibili non sono sufficienti a valutare il rischio di estinzione. Le specie quasi minacciate rappresentano un ulteriore 5,6% dei ropaloceri italiani. Tra le specie di ropaloceri valutate in pericolo critico (CR) c’è ad esempio l’Euphydryas maturna, tra quelle valutate in pericolo (EN) ci sono ad esempio la P. exuberans e la P. Humedasae. Senza contare che le farfalle sono tornate anche nel mirino dei bracconieri e del mercato nero, come dimostrano gli ultimi fatti cronaca registrati al santuario delle farfalle dedicato alla memoria di Ornella Casnati sull’isola d’Elba. Qui sono sparite le foglie nutrici e sono state vendute on line coppie di Zerynthya Cassandra (lepidottero endemico di un’area dell’Elba), a denunciare il fatto la stessa Legambiente».

Per quanto riguarda invece le api, secondo gli ultimi dati della Lista Rossa Europea dedicata a questi insetti, il 9,2% delle 1.965 specie di api selvatiche è in via di estinzione (IUCN, 2015). Inoltre, secondo la Fao, in Europa il 37% delle api è in declino.

il riscaldamento globale e il clima “impazzito” mettono, ad esempio, a rischio l’impollinazione delle api con conseguenze negative per la produzione agricola e del miele. Tra le conseguenze dei cambiamenti climatici vi è anche la modifica della composizione della vegetazione alla quale i ropaloceri sono sensibili. Inoltre, come sottolinea la lista rossa delle farfalle italiane, le temperature invernali più alte della media e i cambiamenti nel regime delle precipitazioni, sono causa della diminuzione dello spessore del manto nevoso sotto il quale svernano le larve della maggior parte delle specie strettamente alpine, come quelle del genere Erebia».

Nel dossier l’associazione ambientalista sottolinea «il prezioso ruolo che farfalle e api svolgono da impollinatori», ma fa anche il punto sulla biodiversità italiana in pericolo ricordando che «nella Penisola – stando agli ultimi dati IUCN – su 2807 sono ben 596 quelle valutate a rischio di estinzione, pari a oltre un quinto del totale – e minacciate da cambiamenti climatici, sovrasfruttamento delle risorse naturali, frammentazione e perdita habitat, inquinamento e pesticidi, introduzione di specie aliene invasive. Nel Mediterraneo sono state valutate fino ad oggi quasi 6.000 specie, di cui il 25% è stato classificato come minacciato».

Il dossier Biodiversità a rischio contiene anche un focus, sull’orso marsicano, con un contributo a firma di Antonio Carrara, ex Presidente del Parco Nazionale D’Abruzzo di cui Legambiente ha chiesto la riconferma al vertice dell’Ente per l’ottimo lavoro svolto negli ultimi cinque anni. Nel Pnalm, nel 2018 sono stati contanti ben 11 cuccioli di orso marsicano, una specie di interesse comunitario e a rischio estinzione. Lo stesso Parco ricorda che nel complesso i dati messi a disposizione in questi anni con il rapporto orso ci dicono che, rispetto alle stime del 2011 e 2014, la popolazione di orso marsicano è sicuramente stabile con alcuni segnali di miglioramento che ci vengono dal numero dei cuccioli nati, dal numero delle femmine riproduttive, dai genotipi rilevati e dalle femmine che si sono riprodotte fuori Parco e Zpe.  Il 2018, infine, è stato segnato dalla storia dell’orsa Peppina avvistata il 12 giugno nel Parco nazionale della Majella accompagnata da 3 cuccioli. Un evento definito eccezionale. Non è la prima volta, infatti, che una femmina di orso si riproduce nel Parco della Majella, era già successo nel 2014, ma questa volta sono addirittura 3 i nuovi nati e da una madre molto particolare. Peppina era stata catturata e munita di radiocollare a Scanno nell’agosto 2012 e dal 2013 vive stabilmente fuori dal Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (Pnalm) e dalla sua ZPE (Zona di perimetrazione esterna), seguita e monitorata anche dai tecnici della riserva regionale Monte Genzana e Alto Gizio e da quelli del Parco Nazionale della Majella

La curatrice del rapporto Federica Barbera, spiega che «L’ultimo capitolo del report è invece dedicato all’importante ruolo che l’Europa ha svolto e che continua a svolgere nella tutela della biodiversità a partire dallo strumento della Direttiva Habitat, che dal 1992 è il pilastro della politica comunitaria di protezione della natura assieme alla Direttiva 200/17/CE sulla conservazione degli uccelli selvatici. La Direttiva Habitat per altro ha istituito la Rete 2000, il network europeo, che si pone come obiettivo quello di proteggere e conservare gli habitat e le specie, animali e vegetali, identificati come prioritari dagli stati dell’Ue. Grazie alle politiche messe in atto dalla UE in questi 27 anni, è stato possibile portare ad elevati livelli di conservazione 231 habitat, che coprono circa un milione di metri quadrati, e più di 1.200 specie a rischio. Inoltre la sfida lanciata con i progetti LIFE ha permesso di raggiungere, soprattutto in Italia, importanti risultati grazie a strategie vincenti che hanno permesso come nel

caso del camoscio appenninico di salvare questo bellissimo ungulato dall’estinzione. Nell’Appennino centrale, infatti, grazie alla sinergia tra aree protette, istituzioni, mondo scientifico e associazioni è stato possibile, con il contributo del programma Life, far arrivare a circa 3.000 il numero degli esemplari di camoscio appenninico (sottospecie endemica per l’Italia, questo significa che questo animale si trova esclusivamente nel nostro Appennino e in nessun altra parte del mondo) contro i 30 esemplari che si contavano agli inizi del ‘900. E poi sempre ai programmi Life, è stato possibile rendere il lupo, specie al vertice della catena alimentare, una delle specie più in ripresa, con una popolazione che oscilla tra i 1.800 e i 2.400 individui, e a far diventare il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise luogo strategico per la tutela dall’estinzione di circa 45-55 esemplari di orso bruno marsicano. Risultati che sicuramente non compensano il patrimonio che stiamo perdendo, ma che dimostrano come si possano mettere in campo con successo politiche di conservazione per il recupero e la salvaguardia di specie e habitat».

Antonio Nicoletti, responsabile aree protette Legambiente, evidenzia che «Oggi ci troviamo a dover affrontare una serie di sfide ambientali in costante aumento e – soprattutto – siamo ancora lontani dal centrare l’obiettivo principale promosso dell’Ue di “porre fine alla perdita di biodiversità e al degrado dei servizi ecosistemici nell’Unione Europea entro il 2020 e ripristinarli nei limiti del possibile”. La Conferenza delle Nazioni Unite, tenutasi lo scorso novembre, è stata l’occasione per verificare i progressi verso il raggiungimento dei 20 Obiettivi di Aichi sulla biodiversità adottati a Nagoya, nel 2010. Un verifica, questa, da cui è emerso che nonostante le molte iniziative per la conservazione della natura, ancora gli sforzi sono insufficienti. Per questo è fondamentale innescare un cambiamento urgente e definire politiche a breve e lungo termine per affrontare il cambiamento climatico, l’inquinamento, l’invasione di specie aliene e tutti gli altri fattori che stanno portando ad un perdita senza precedenti di biodiversità. In questa partita le aree protette, insieme alla Rete Natura 2000, rappresentano uno strumento importante per raggiungere questi obiettivi e fermare la perdita di biodiversità. In particolare per avere un impatto reale la Rete 2000 deve essere gestita in modo efficace. Se l’Italia appare in regola, nel recepimento delle direttive comunitarie, dovrebbe invece far meglio sulla tutela Rete 2000 dato che non ha ancora garantito fondi per la gestione effettiva ed integrata dei siti Natura 2000 e per la conservazione efficace delle specie e degli habitat».

Tra i nemici della biodiversità ci sono anche i cambiamenti climatici, compresi i danni causati dalla tempesta Vaia che lo scorso ottobre ha interessato le regioni italiane del nord-est (Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia-Giulia) con venti che in alcuni casi hanno superato i 200Km/h, testimonia come gli eventi metereologici, in questo caso “aiutati” da un’estate più calda della media e il conseguente riscaldamento prolungato delle acque del Mediterraneo, diventino sempre più estremi e catastrofici, con conseguenze anche sulla nostra economia. Senza dimenticare del cosiddetto fenomeno della tropicalizzazione del Mediterraneo con un lento aumento della temperatura e acidificazione.

La Barbera conclude: «Il recente Rapporto IPCC, sul Riscaldamento Globale di 1.5° C ha evidenziato la necessità e l’urgenza di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1.5°C per poter vincere la sfida climatica. La differenza tra 1.5 e 2°C non è trascurabile. Contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5°C potrà ridurre in maniera significativa i danni climatici non solo per i paesi più poveri e vulnerabili, ma anche per l’Europa. Ma per vincere questa sfida climatica, è indispensabile che l’Italia tenga fede agli impresi presi con l’Accordo di Parigi».