E’ stata la caccia a portare rapidamente all’estinzione le alche impenni?
Grandi uccelli marini inabili al volo che vivevano in enormi colonie lungo le coste del nord Atlantico
[28 Novembre 2019]
Lo studio “Demographic reconstruction from ancient DNA supports rapid extinction of the great auk”, pubblicato su eLife da un team di ricercatori internazionale rivela nuove informazioni sull’estinzione dell’alca impenne (Pinguinus impennis) un uccello marino incapace di volare che è scomparso dalle coste del Nord Atlantico durante il XIX secolo. A provocare la rapida estinzione della great auk, come la chiamavano gli inglesi, sarebbe stata un’intensa caccia da parte dell’uomo, mostrando così che anche specie che hanno popolazioni molto grandi possono essere vulnerabili allo sfruttamento a fini economici.
Le alche impenni erano uccelli di grandi dimensioni che raggiungevano gli 85 centimetri di altezza e i 5 Kg di peso, completamente inabili al volo ma in grado di immergersi in profondità – come i pinguini dell’emisfero australe ai quali somigliavano – e probabilmente vivevano in colonie, che insieme formavano una popolazione totale di milioni di individui, sparse intorno al Nord Atlantico, con colonie riproduttive lungo la costa orientale del Nord America e in particolare sulle isole al largo di Terranova. Potrebbero aver anche nidificato sulle isole al largo delle coste dell’Islanda e della Scozia e in tutta la Scandinavia e probabilmente si spingevano a pescare fino al Mediterraneo e alle coste italiane.
Le alche impenni sono state da tempo immemorabile cacciati dagli umani. Venivano sterminate per la loro carne e le uova già durante la preistoria, un’attività predatoria che si intensificò ulteriormente a partire dal 1500 d.C. quando i marinai europei iniziarono a spingersi nelle zone di pesca di Terranova. Sfortunatamente per loro, nel 1.700 le loro piume divennero molto ricercate, contribuendo ulteriormente alla loro scomparsa. Intorno al 1850, il Pinguinus impennis si estinse: gli ultimi due esemplari conosciuti furono cacciati dai pescatori sull’isola di Eldey, al largo della costa islandese.
La principale autrice dello studio, Jessica Thomas, che ha completato il lavoro nell’ambito dei suoi studi di dottorato alla Bangor University, nel Regno Unito, e all’Università di Copenaghen, in Danimarca, e che ora ricercatrice post-dottorato presso la Swansea University del Galles, sottolinea che «Nonostante la ben documentata storia di sfruttamento a partire dal XVI secolo, non era chiaro se la caccia da sola avrebbe potuto essere responsabile dell’estinzione della specie o se gli uccelli fossero già in declino a causa di cambiamenti ambientali naturali». Per cercare di capirlo, la Thomas e il suo team hanno effettuato analisi combinate di antichi dati genetici e attuali dati oceanici basati sul GPS e la vitalità delle popolazioni: un processo che esamina la probabilità che una popolazione si estingua in un determinato numero di anni. Quindi hanno sequenziato i genomi mitocondriali completi di 41 individui provenienti da tutto l’areale geografico dove viveva la specie e hanno usato queste analisi per ricostruire la struttura e le dinamiche della popolazione delle alche impenni durante il l’Olocene, gli ultimi 11.700 anni della storia della Terra.
L’autore senior dello studio, Thomas Gilbert, professore di genomica evoluzionistica all’università di Copenaghen, sottolinea che «Nell’insieme, i nostri dati non suggeriscono che le great auk fossero a rischio di estinzione prima dell’intenso comportamento di caccia umana all’inizio del XVI secolo. Ma, fondamentalmente, questo non significa che abbiamo fornito prove concrete del fatto che solo gli esseri umani siano stati la causa dell’estinzione dell’alca impenne. Quel che abbiamo dimostrato è che la pressione venatoria umana avrebbe potuto causare l’estinzione anche se gli uccelli non erano già minacciati dai cambiamenti ambientali. Le nostre conclusioni sono limitate da un paio di fattori. Il genoma mitocondriale rappresenta solo un singolo marcatore genetico e, a causa della conservazione e disponibilità limitate del campione, una dimensione del campione di studio di 41 è relativamente piccola per le analisi genetiche di popolazione».
Ma un altro autore dello studio, afferma il collaboratore Gary Carvalho, professore Zoologia alla Bangor University, evidenzia che «Nonostante queste limitazioni, i risultati aiutano a rivelare come lo sfruttamento commerciale su scala industriale delle risorse naturali abbia il potenziale per portare una specie abbondante, con un ampio areale e geneticamente diversificata fino all’estinzione in un breve periodo di tempo».
In un’intervista a BBC News la Thomas conferma: «Abbiamo cercato le firme del declino della popolazione [prima del 1500]. Una di queste firme potrebbe essere la mancanza di diversità genetica, il che suggerisce che gli individui si accoppiano e allevano in consanguineità e la specie, nel suo insieme, sta diventando vulnerabile alle malattie o ai cambiamenti ambientali. Ma la loro diversità genetica era molto alta: tutte, tranne due sequenze che abbiamo trovato, erano molto diverse».
In effetti, la cronologia genetica pubblicata su eLife dimostra che quando è iniziata l’intensa caccia all’alca impenne, la specie stava molto bene. «Non erano affatto a rischio di estinzione – ha detto la Thomas – Il che sottolinea quanto siano vulnerabili anche le specie diffuse e abbondanti a questo tipo di pressione intensa e localizzata».
Conclusioni che confermano quelle dello studio “Natural selection shaped the rise and fall of passenger pigeon genomic diversity”, pubblicato nel novembre 2017 su science da un altro team di ricercatori internazionale, che d si occupava dell’estinzione della colomba migratrice (Ectopistes migratorius), un uccello del nord America con una popolazione numerosissima che si è estinto all’inizio del XX secolo.
Il neozelandese Michael Knapp, senior lecturer in biological anthropology e Rutherford discovery fellow all’università di Otago, che ha partecipato allo studio sulle alche impenni, conclude: «Il nostro lavoro sottolinea anche la necessità di monitorare attentamente le specie raccolte commercialmente, in particolare in ambienti scarsamente studiati come i nostri oceani. Questo contribuirà a gettare le basi per ecosistemi sostenibili e garantire sforzi di conservazione più efficaci».