Il ripristino dell’habitat di una piccola caverna italiana diventa un esempio internazionale

Per salvare la minuscola planaria Dendrocoelum italicum. «Qualunque cosa valga la pena di essere fatta, vale la pena farla bene»

[5 Febbraio 2019]

Della salvaguardia della fauna selvatica se ne parla spesso solo quando si tratta di orsi polari, condor, tartarughe marine, elefanti… ma gli sforzi per salvare animali meno iconici o “carini” vengono perlopiù ignorati quando si tratta di molluschi, vermi o insetti.  Eppure, un’esperienza italiana ha attirato l’attenzione internazionale, finendo prima su pubblicazioni scientifiche e poi su siti come Atlas Obscura, dove Erica Tennenhouse racconta la storia della rinascita della piccola grotta di Bùs del Budrio, in provincia di Brescia, una delle tante che si aprono  nel calcare ai piedi delle nostre Alpi. «Dentro c’era una cascata, e sotto un laghetto delle dimensioni di un garage per una macchina – spiega la Tennenhouse –  E in quella piscina naturale c’erano minuscoli vermi bianchi d’acqua dolce che si pensava non esistessero in nessun’altra parte del mondo».

I vermi erano planarie, vermi platelminti noti per la loro semplicità e capacità di rigenerarsi, grandi come chicchi di riso e le aveva scoperte nel 1936 l’entomologo Mario Pavan nel laghetto della grotta. Pavan inviò alcuni esemplari di quei vermi piatti e senza occhi all’università di Pavia, dove l’anatomista Maffo Vialli li classificò come una specie unica e la chiamò Dendrocoelum italicum. Poi nessuno per 80 anni pensò più a quelle minuscole planarie bianche fino a che, nel 2016, i biologi dell’Università di Milano si sono imbattuti, in un’altra grotta, a circa 80 miglia di distanza dal Bùs del Budrio, in quella che sembrava essere un’altra specie di planaria unica. Gli scienziati italiani si sono chiesti se queste “nuove” planarie fossero imparentate con Dendrocoelum italicum, l’unica planaria endemica fino ad allora conosciuta dell’‘Italia settentrionale. Così sono andati a Bùs del Budrio ma, dopo aver raggiunto la grotta scendendo da una vecchia scala a chiocciola e percorrendo un lungo corridoio, si sono accorti che le cose erano cambiate rispetto a come le aveva descritte Vialli. «La descrizione originale della grotta menzionava un laghetto, ma non c’era» spiega Raoul Manenti, un ecologo delle zone umide che ha guidato il team italiano che ha recentemente pubblicato su Oryx lo studio “Even worms matter: cave habitat restoration for a planarian species increased environmental suitability but not abundance”, insieme ai suoi colleghi Benedetta Barzaghi,  Gentile Francesco Ficetola e Andrea Melotto del  dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’università degli Studi di Milano, e Gianbattista Tonni del Monumento Naturale Altopiano di Cariadeghe,

Negli anni ’80 nella grotta era stata installata una “diga” di cemento che deviava l’acqua che una volta formava il laghetto in un tubo che alimentava un’azienda agricola lì vicino.  Manenti e il suo team si trovarono di fronte a un laghetto completamente prosciugato e a una ridotta a un rivolo che ruscellava sul fondo della grotta. Un’ambiente che non sembrava più adatto alle planarie che preferiscono le acque calme e basse, mentre il ruscelletto era turbolento e con scarso cibo. Ma gli scienziati non si sono scoraggiati ed hanno cominciato a cercare tracce dei piccoli vermi bianchi scoperti 80 anni prima e subito dimenticati.  E hanno avuto ragione: alla fin, contro ogni previsione, il team ha scoperto che i Dendrocoelum italicum erano sopravvissuti e sono riusciti a scovarne diversi esemplari. Però Manenti sapeva che l’unica popolazione conosciuta di questa planaria era sull’orlo di un’estinzione imminente e sapeva anche che, fatte le debite proporzioni, sarebbe stato come perdere per sempre una specie di grandi felini, visto che, in un’ambiente estremo e scarso di nutrienti,  Dendrocoelum Italicum è un predatore all’apice: «Queste planarie sono in cima alla piccola rete trofica acquatica delle caverne … probabilmente svolgono un ruolo importante nella regolazione dell’altra fauna acquatica invertebrata della grotta», ha detto ad Atlas Obscura.

I ricercatori italiani hanno visto subito l’opportunità di salvare una specie rara e il suo ecosistema, ma anche per restituire la grotta alla sua condizione naturale. Così, Manenti ha messo in piedi quello che ritiene essere il primo progetto di ripristino di un habitat progettato specificamente per salvare un verme. «Almeno a livello di platelminti, è stato un enorme sforzo», sottolinea la Tennenhouse .

La grotta si trova nell’Altopiano di Cariadeghe, in un’area protetta, e per ripristinarla il team aveva bisogno delle autorizzazioni che Manenti ha chiesto agli amministratori locali. Cosa che è stata abbastanza facile  ma quel che gli scienziati temevano era la reazione della comunità che aveva accolto con sospetto l’idea che arrivassero degli estranei ad armeggiare nella loro caverna». Per conquistare la fiducia della gente e coinvolgerla nel progetto,  Manenti ha organizzato una serie di visite guidate nella grotta durangte le quali i ri cercatori illustravano le caratteristiche delle specie uniche che ci vivono. «Ci siamo concentrati sul fatto che questo verme è il loro verme perché è endemico», sottolinea Manetti. In contemporanea sono state organizzate anche altre escursioni agli altri  bùs del lat , (buchi del latte), le piccole grotte nei dintorni che storicamente venivano utilizzate per la conservazione del latte e la lavorazione del formaggio.

Poi gli scienziati hanno dovuto convincere Giuseppe Bodei, l’agricoltore che aveva captato l’acqua del Bùs del Budrio che fortunatamente, dipendeva più dalla cascatella per irrigare la sua terra. Ma la grotta era comunque una specie di istituzione familiare che per generazioni era stata usata per conservare il ghiaccio nei mesi più caldi. Ma Bodei ha dimostrato di avere il cervello fino e ha trovato conveniente ripristinare l’habita della sua grotta: la sua famiglia ha visto subito la possibilità di gestire nella fattoria i gruppi di turisti in visita alla grotta e di vender loro i prodotti dei campi. Insomma, un agriturismo ipogeo.

Per ricevere tutte le autorizzazioni necessarie ci sono voluti 6 mesi e il 4 dicembre 2016, il piano di ripristino della grotta ha preso il via. Il team ha prelevato con cura con delle pipette 73 planarie dal ruscello e le ha temporaneamente ospitate in acquari. Gli speleologi locali hanno aiutato a rimuovere la diga di cemento. «Era sul soffitto della grotta, quindi abbiamo dovuto arrampicarci – spiega ancora Manenti. E’ stato difficilissimo rimuoverla», ma dopo 3 ore barriera e tubo non c’erano più e il laghetto ha iniziato a riempirsi e il giorno dopo tutti gli esemplari di Dendrocoelum italicum  raccolti stavano nuovamente nuotando nel loro habitat originario, che era scomparso per 30 anni.

Un ripristino di un habitat cavernicolo che ha suscitato grande interesse. L’entomologo Pedro Cardoso, attuale curatore del Museo Finlandese di Storia Naturale di Helsinki, ha detto ad Atlas Obscura che «E’ un bel risultato. E’ notevole aver ottenuto il coinvolgimento di tutti questi stakeholders e aver [effettuato] tutte queste azioni di conservazione per un planaria». Nello studio “The seven impediments in invertebrate conservation and how to overcome them” pubblicato nel 2011 su Biological Conservation, Cardoso, Terry Erwin della Smithsonian Institution, Paulo A.V. Borges dell’Universidade dos Açores e Tim New de La Trobe University, si lamentavano del fatto che il generale disprezzo per gli invertebrati fosse un grosso ostacolo alla loro conservazione.

La pensa così anche lo statunitense Scott Black, direttore esecutivo della Xerces Society for Invertebrate Conservation  che evidenzia: «Se il team avesse lavorato per conservare un grande mammifero peloso – diciamo un panda o una tigre – l’opinione pubblica avrebbe potuto essere pronta a sostenere il progetto sin dall’inizio, senza lo sforzo di pubbliche relazioni. Tendiamo a vedere i mammiferi in una luce migliore rispetto agli invertebrati perché ci somigliano, mentre le creature come le planarie ci sono più aliene. La cosa bella di questo [progetto] è che sono stati in grado di coinvolgere la comunità: bastato uno sforzo speciale».

Dopo il ripristino del piccolo laghetto ipogeo, Manenti e il suo team hanno visitato regolarmente la grotta per vedere come se la cavano i platelminti.  Come riferiscono su Oryx, un anno dopo, non c’era stato nessun aumento di Dendrocoelum italicum a impennata notevole nel loro numero. Ma specie di planarie simili,  specialmente quelle che vivono nelle caverne, sono lente a riprodursi. Anche quando lo fanno, le piccole planarie sono così minuscole che è quasi impossibile vederle. Manenti e il suo team  continueranno a tornare nella grotta per tenere d’occhio la crescita della popolazione. Ma il successo non si misura solo in numeri: «Solo il fatto che sia stato possibile lavorare con tante persone e che la comunità locale ora conosca questa specie unica . conclude Cardoso – è davvero una vittoria per il progetto, indipendentemente da ciò che accade con la popolazione. Inoltre, c’è qualcosa di confortante nel sapere che questa specie unica è tornata nel luogo a cui appartiene».