Il cambiamento climatico continuerà ad aumentare l’insicurezza alimentare nei Paesi poveri

I paesi che hanno già rese agricole basse saranno maggiormente danneggiati dal clima più caldo

[2 Ottobre 2020]

Il nuovo studio “Impacts of rising temperatures and farm management practices on global yields of 18 crops”, pubblicato su Nature Food da un team di ricercatori dell’ University College London e delle univeraità di Edimburgo e Southampton ha valutato l’impatto del riscaldamento globale sulle rese delle  18 delle colture alimentari più diffuse e importati del mondo – grano, mais, soia, riso, orzo, barbabietola da zucchero, manioca, cotone, arachidi, miglio, avena, patate, legumi, colza, segale, sorgo, girasole e patate dolci – che insieme rappresentano il 70% della superficie terrestre coltivata e circa il 65% dell’apporto calorico globale. I ricercatori hanno scoperto che anche in questo caso vale l’adagio “piove sempre sul bagnato”: «Concentrandoci sull’impatto della temperatura, abbiamo riscontrato una notevole eterogeneità nelle risposte dei raccolti tra colture e Paesi. Abbiamo scoperto che l’irrigazione allevia le implicazioni negative degli aumenti di temperatura. I Paesi in cui l’aumento della temperatura causa gli impatti più negativi sono in genere i più insicuri, con l’apporto calorico e la resa media del raccolto più bassi».

Il team di ricercatori guidato da Paolo Agnolucci, un economista ambientale dell’Institute for sustainable resources dell’University College London, ha quindi scoperto che il cambiamento climatico non solo renderà difficile garantire i raccolti attuali, ma che i Paesi che già hanno problemi di insicurezza alimentare saranno colpiti in modo sproporzionato. E le cose potrebbero andare anche peggio, visto che i ricercatori britannici hanno studiato le variazioni di temperatura, ma non hanno esaminato gli impatti climatici sui modelli delle precipitazioni o altri fenomeni meteorologici come inondazioni o siccità.

Tanto per confermare che la fortuna e cieca ma la sfiga ci vede benissimo, i Paesi che subiranno il peggior impatto sulla maggior parte delle colture saranno quelli dell’Africa sub-sahariana e alcuni Paesi del Sud America e dell’Asia meridionale come Brasile, Venezuela, India e Indonesia e Venezuela.

In un’intervista a Environmental Health News (EHN), Agnolucci ha sottolineato che «Generalmente, per i Paesi con una bassa produttività esistente ci aspettavamo anche un forte impatto negativo del cambiamento climatico … questi sono per lo più Paesi non sviluppati».

Per prevedere come i terreni coltivati attualmente in tutto il mondo reagiranno a un clima più caldo, il team di Agnolucci ha utilizzato i dati Fao sui raccolti globali e modelli statistici e hanno controllato altri fattori quali l’uso di fertilizzanti e pesticidi e le diverse tecniche di irrigazione. I loro modelli statistici hanno prodotto risultati stranamente simmetrici che prevedono che, in media, i Paesi con una resa dei raccolti già elevata beneficeranno di un aumento della temperatura di 1 grado Celsius, mentre i Paesi Con rese minori avranno ancora più difficoltà. Lo stesso trend vale per il consumo di calorie: i Paesi con un apporto calorico giornaliero medio per persona più elevato hanno maggiori probabilità di beneficiare di un aumento di 1 grado Celsius della temperatura globale rispetto ai Paesi in cui l’apporto calorico medio è inferiore.

Secondo Agnolucci, «I dati mostrano che la questione del cambiamento climatico è anche una questione di sicurezza alimentare, dove chi beneficia di un clima più caldo sono quelli che non hanno necessariamente bisogno di più terra coltivabile o più calorie disponibili. In media, i perdenti sono quei Paesi che stanno già perdendo».

L’ineguale fardello climatico che dovranno sostenere i Paesi più poveri non è certo una sorpresa,  come ha detto a EHN Ephraim Nkonya, un economista agricolo dell’International Food Policy Research Institute che non è stato coinvolto nello studio, «E’ noto che il cambiamento climatico colpisce in modo sproporzionato le nazioni più povere; colpisce anche in modo sproporzionato le comunità più povere all’interno delle nazioni. Il cambiamento climatico, esacerbando le disuguaglianze di reddito e ricchezza, amplierà ovviamente le disparità nella sicurezza alimentare». Ma Nkonya si chiede se l’apporto calorico debba essere usato come indicatore della sicurezza alimentare. «Il pensiero attuale è che dobbiamo in realtà guardare a una dieta sana. Negli ultimi anni, la Fao ha spostato la sua attenzione dall’aumento dell’apporto calorico nelle aree di insicurezza alimentare alla promozione di sistemi che producono diete accessibili e sane. Il semplice aumento dell’apporto calorico medio di una nazione non si traduce necessariamente in una nazione più sicura dal punto di vista alimentare e fare affidamento su una misurazione come l’apporto calorico oscura il benessere della popolazione».

Come esempio, Nkonya cita il rapporto “The State of Food Security and Nutrition in the World 2020” della Fao dal quale emerge AO e ha affermato che circa il 60% della popolazione dell’Africa subsahariana non può permettersi una dieta sana, mentre, guardando solo alla produzione e al consumo calorico medi, risulta che sono in aumento.

Il nuovo studio rivela anche quali sono le specie agricole che saranno perdenti e vincenti con il riscaldamento globale, con le rese di orzo, miglio e colza che risponderanno in modo abbastanza volatile. I raccolti più robusti saranno quelli di manioca, le patate e la soia, per i quali i modelli prevedono una crescita con un aumento della temperatura di 1 grado Celsius.

Ma alcuni raccolti aumenteranno in certi Paesi e diminuiranno drasticamente in altri. Per esempio, la resa del riso, con un aumento della temperatura di 1 grado Celsius, diminuirà di circa il 20% in India, ma aumenterà di circa il 10% in Russia.

Agnolucci evidenzia che «Questi dati ci mostrano dove è necessario concentrare gli sforzi futuri e su quali colture è necessario concentrarsi quando si pianificano strategie agricole tenendo conto del cambiamento climatico. Nel caso dell’India, il riso è un alimento importante dal punto di vista culturale, ma potrebbe non valere la pena di raddoppiare le risorse e cercare di mantenere i livelli di raccolto. Ma una sostituzione nella produzione non implica necessariamente che ci sia bisogno di una sostituzione del consumo. Piuttosto, è più probabile che la strategia vincente potrebbe richiedere una combinazione di cose, incluso spostare la produzione su un raccolto diverso ed esportare quel raccolto, come per l’importazione del riso».

Lo studio ha dovuto fare i conti con alcuni limiti: per esempio, non tutti i Paesi dispongono di dati completi e affidabili sulla resa dei raccolti o sulle pratiche agricole standard, inoltre, i modelli statistici non hanno potuto tener conto dei cambiamenti dinamici nei terreni agricoli che si verificheranno con i cambiamenti climatici.

Il loro modello prodotto dai ricercatori britannici rappresenta solo il modo in cui la terra arabile esistente reagirà al cambiamento delle temperature, ma il riscaldamento climatico provocherà uno spostamento dell’area coltivabile su territori oggi inadatti. Lo stesso Agnolucci dice che «I dati utilizzati sono cifre mediate  tra le nazioni, il che ha cancellato ogni sfumatura o variabilità in grandi paesi come gli Stati Uniti o la Cina».

Nkonya fa presente un grosso problema che emerge con tutte queste generalizzazioni e in particolare il fatto che «Per 10 delle 18 colture valutate in questo studio, un aumento di 10 millimetri nelle precipitazioni induce una diminuzione delle rese, valutate per la media globale, mentre nelle restanti colture l’impatto è positivo. Si tratta di un dato controintuitivo, probabilmente perché il mezzo globale che hanno usato oscura di nuovo la realtà per i Paesi più poveri. Quella media quasi certamente non riflette la realtà dei Paesi più poveri e aridi, dove un aumento delle precipitazioni farà aumentare quasi sicuramente i raccolti. Tali generalizzazioni non sono utili e forse sono controproducenti quando si tratta di iniziative per la sicurezza alimentare».

Agnolucci ammette che lo studio ha qualche Limite  e ribatte che «Ulteriori ricerche si baseranno sull’accuratezza dei dati e li miglioreranno, mostrando maggiori sfumature». Ma conclude: «Speriamo che questi dati consentiranno ai Paesi e alle comunità di personalizzare strumenti e strategie per soddisfare le proprie esigenze e combattere le sfide agricole legate al clima. Dopotutto, non abbiamo nessuna bacchetta magica».