La crisi climatica nel Mediterraneo. Il dossier Wwf su mare e criosfera, in attesa dell’Ipcc

Il Mediterraneo è una delle regioni maggiormente a rischio del mondo

[25 Settembre 2019]

Oggi l’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) presenta il Summary for Policymakers  del suo nuovo “Special Report on the Ocean and Cryosphere in Changing Climate” e le anticipazioni parlano già di un altro documentato, autorevole e sconvolgente grido d’allarme su quel che il cambiamento climatico sta provocando e provocherà agli oceani, al ghiaccio marino e terrestre, ai poli e sulle montagne.

Il Wwf ha anticipato il rapporto Ipcc con il dossier “La crisi climatica nel Mediterraneo: alcuni dati” che prende in esame «una delle regioni maggiormente a rischio per gli effetti del cambiamento climatico nel mondo», un mare relativamente chiuso – con stretti passaggi di comunicazione con l’Oceano Atlantico (stretto di Gibilterra) e con il mar Nero (stretto del Bosforo) – poco profondo e le cui acque quindi si riscaldano a tassi superiori rispetto a quelli degli oceani.  Il rapporto avverte che «Gli impatti che stanno affliggendo e affliggeranno i sistemi naturali colpiranno inevitabilmente le persone e le attività economiche, mettendo a rischio le società».
Il dossier ricorda che « La temperatura delle acque superficiali è aumentata anche di 1,8 gradi e oltre, raggiungendo in estate anche i 30°C, mentre quella delle acque profonde di 0,2 gradi; negli abissi le temperature potrebbero aumentare anche di 1 grado, un aumento enorme per quanto riguarda le profondità marine».

A causa dell’aumento della temperatura delle acque, nel Mediterraneo  sono comparse e si sono sviluppate specie tipicamente tropicali. Il Panda spiega che «Su circa 17 mila specie ospitate dal Mediterraneo, si calcola che mille siano aliene, cioè originarie di altre zone del mondo, portate dalle imbarcazioni o da altre attività umane e poi sviluppatesi grazie al clima favorevole, in competizione con le specie già presenti nel nostro mare e a loro volta già sofferenti a causa dell’innalzamento della temperatura».

In diverse aree del Mediterraneo, nelle zone ipossiche, si potrebbero verificare morie di massa della fauna marina, anche per la carenza di ossigeno. «A tutto questo  – si legge nel dossier Wwf – si aggiunge il fenomeno dell’acidificazione, un effetto diretto dell’incremento della CO2 in atmosfera che poi si scioglie nelle acque marine formando acido carbonico e provocando una diminuzione del PH, con effetti gravi su alcune specie, soprattutto quelle che presentano scheletri calcarei (per esempio il corallo rosso)».

Il Wwf rammenta che «I danni alle singole specie e la distruzione degli habitat hanno ricadute immediate e a lungo termine per le donne e gli uomini che vivono nella regione, dalle attività di pesca alla protezione dall’erosione e dalle inondazioni delle aree costiere: in termini strettamente economici si è calcolato che le sole risorse biologiche (pesca) nel Mediterraneo hanno un valore annuo di circa 500 miliardi di euro».

Lo Special Report Ipcc si occupa anche della  criosfera, cioè sia sul ghiaccio marino e sui ghiacciai che ricoprono l’Antartide, gran parte della Groenlandia e le zone più alte dei massicci montuosi del resto del mondo. Il Dossier Wwf evidenzia che «La fusione del ghiaccio marino altera i cicli climatici e le correnti, sia quelle ventose (jet stream) sia quelle marine, come la corrente del Golfo. Per il Mediterraneo e l’Italia tutto questo è molto rilevante. La fusione delle coperture di ghiaccio sulla terra ferma avrà molti effetti, dall’innalzamento del livello del mare alla drastica o totale riduzione delle riserve d’acqua dei ghiacciai montani su cui si basa la vita degli ecosistemi e delle comunità umane. La fusione dei ghiacci montuosi avranno anche enormi effetti sulla morfologia delle montagne, sul ciclo idrico, sulla vita delle specie animali e vegetali, nonché delle comunità e le attività umane e sulla cultura di quelle zone».

Negli ultimi decenni i ghiacciai alpini sono in forte ritiro: l’ultimo Catasto dei ghiacciai italiani dimostra che la superficie dei ghiacciai italiani è passata dai 519 km2 del 1962 (Catasto Cgi-Cnr), ai 609 km2 del 1989 (catasto World Glacier Inventory, con dati raccolti negli anni ’70-80), agli attuali 368 km2, pari al 40% in meno rispetto all’ultimo catasto. Contemporaneamente, il numero dei ghiacciai è  cresciuto: 903, contro gli 824 nel 1962 e i 1,381 nel 1989, ma l’aumento rispetto al 1962 è un altro segnale di pericolo «E’ dovuto all’intensa frammentazione che ha ridotto sistemi glaciali complessi a singoli ghiacciai più piccoli», dice il Wwf – Studi condotti su singoli gruppi glaciali mostrano le evoluzioni recenti dei ghiacciai italiani, ne modellano il comportamento e ne ipotizzano le evoluzioni future. Studi sulla potenziale evoluzione futura (fino al 2100) del ghiacciaio dei Forni in Valtellina, il più grande ghiacciaio vallivo italiano, utilizzando modelli di dinamica glaciale e gli scenari climatici forniti dall’Ipcc, mostrano per il ghiacciaio, in forte ritiro negli ultimi trent’anni, il potenziale per una ulteriore fortissima riduzione, in particolare nello scenario più pessimistico previsto dall’Ipcc nel suo ultimo assessment globale, quello del 2013. Il ghiaccio del Calderone nel massiccio del Gran Sasso in Abruzzo, il ghiaccio più meridionale d’Europa, viene ormai considerato praticamente estinto anche se uno strato di ghiaccio ridotto a 25 metri è ancora presente sotto i detriti».

Negli  ultimi 150 anni alcuni ghiacciai hanno perso oltre due chilometri di lunghezza, ma a ridursi è anche  il loro spessore che in una sola estate può assottigliarsi anche di 6 metri in una singola. Il Dossier Wwf prevede che «Con la media delle temperature degli ultimi anni, i ghiacciai sotto i 3.500 metri sono destinati a sparire nel giro di 20-30 anni. Se le temperature continueranno ad aumentare, nel giro di pochi decenni i ghiacci eterni dalle Alpi Orientali e Centrali potrebbero ridursi drasticamente o scomparire. Rimarrebbero solo sulle Alpi Occidentali, quelle più alte. Inoltre, i ghiacciai sono sempre più scuri, e quindi più vulnerabili alle radiazioni solari».

Le conseguenze sarebbero devastanti, nn solo per l’ambiente e il paesaggio montano, per le comunità e le attività economiche, dal turismo all’energia. Il Wwf spiega ancora: «I deflussi estivi dei fiumi derivano per la maggior parte dalla fusione glaciale. Venendo meno i ghiacciai, svanirebbe anche il loro contributo ai torrenti alpini e ai fiumi della Pianura Padana, compreso il Po con significative conseguenze sull’approvvigionamento idrico per la popolazione e per le attività economiche, a cominciare dall’agricoltura. Inoltre, le dighe ad alta quota si trovano perlopiù sotto o nelle vicinanze di grandi corpi glaciali, per accumulare l’acqua rilasciata dalla fusione e trasformarla in energia idroelettrica. Se i ghiacciai scomparissero, verrebbe meno anche parte della materia prima necessaria per produrre quell’energia. Aumenta anche il rischio dei cosiddetti glacier hazards, cioè i rischi legati all’azione diretta del ghiaccio e/o della neve e potrebbero portare a valanghe di ghiaccio e ad alluvioni catastrofiche per esondazione di laghi glaciali, come quella verificatasi nell’estate di quest’anno nei pressi del ghiacciaio Zermatt in Svizzera».

Quello che emege dal Dossier del Panda italiano è un effetto incrociato che porta all’innalzamento del mare, un fenomeno studiato da molti scienziati, compresi quelli del team di Fabrizio Antonioli, ricercatore del Laboratorio di modellistica climatica e impatti dell’Enea,  che sta studiando anche particolari aree a rischio.  Secondo il Dossier, «I quattro fattori che concorrono all’attuale sollevamento di livello dei mari italiani sono: lo scioglimento dei ghiacci, il riscaldamento superficiale delle acque, l’isostasia (equilibrio della crosta terrestre) e i movimenti tettonici verticali. I primi due fattori sono direttamente correlati alla crisi climatica. La fusione dei ghiacci terrestri (soprattutto in Groenlandia) contribuisce direttamente a far innalzare il livello degli oceani e dei mari. I mareografi ci dicono che la crescita è stata di circa 18 centimetri negli ultimi 100 anni come media globale e circa 13.5 centimetri nel Mediterraneo. Il livello si innalza meno nel Mediterraneo per via della soglia a Gibilterra costituita da differenze di densità e forti correnti che impediscono parzialmente al mare dell’Oceano Atlantico di entrare nel Mediterraneo con facilità: attualmente lo “scalino” è di circa 30 cm. Negli ultimi 100 anni i mareografi di Venezia evidenziano quasi 25 centimetri di sollevamento del mare (somma dello scioglimento dei ghiacci e la terra che scende)». La situazione è più che preoccupante, visto che quando, 125mila anni fa, la concentrazione di CO2 in atmosfera era ai livelli attuali, intorno alle 415 parti per milione, il Mediterraneo era più alto di 7 metri. Il Wwf avverte che «L’innalzamento del mare metterà a rischio la vita delle comunità umane e delle città, con effetti dirompenti in un Paese come il nostro, con 8mila chilometri di costa».

Ma il Panda italiano non perde la fiducia  e dice che, se riusciremo a contenere il surriscaldamento globale a 1,5° C, sono molte le azioni che si possono intraprendere per attutire l’effetto, soprattutto di ripristino dei sistemi naturali.  Il Wwf fa notare che «Per alcune situazioni particolarmente vulnerabili, occorrerà pensare da subito a come adattarsi alla nuova realtà, partendo dal presupposto che adattarsi non vuol dire che tutto sarà come è oggi. L’Enea ha identificato in Italia 33 aree sensibili che, sulla base della loro attuale posizione (oggi depresse, cioè sotto il livello del mare) sono particolarmente vulnerabili al futuro innalzamento del livello del mare: le aree più estese si trovano sulla costa settentrionale del mare Adriatico tra Trieste e Ravenna, altre aree particolarmente vulnerabili sono le pianure costiere della Versilia, di Fiumicino, le piane Pontina e di Fondi, le piane del Sele e del Volturno, l’area costiera di Catania e quelle di Cagliari ed Oristano. Sono comunque molti i settori nazionali che mostrano aree con coste basse già oggi a rischio di essere allagate nei prossimi 100 anni (valutate sui circa 7500 km2 ). Nel 2015, una ricerca multidisciplinare coordinata da Enea  ha redatto con grande dettaglio la previsione di allagamento da parte del mare in 4 aree costiere: la costa settentrionale dell’Adriatico (tra cui la laguna di Venezia), i golfi di Oristano e di Cagliari in Sardegna, e la zona del Mar Piccolo (Taranto, Puglia). I risultati applicati alle quattro piane costiere indicate mostrano come il previsto innalzamento del livello del mare, nella zona Nord Adriatico, potrebbe allagare 4957 km2 (usando lo scenario IPCC 2013) o 5451 km2 (usando lo scenario Rahmstorf 2007), con la conseguente perdita di territorio e impatto sulle infrastrutture locali. Il Laboratorio di Modellistica Climatica e Impatti dell’Enea  sta per pubblicare un nuovo modello per il Mediterraneo».