Nuotare o affogare nel mare del global warming
I piccoli Stati insulari possono sopravvivere alla crisi climatica?
[2 Agosto 2021]
I piccoli Stati insulari di tutto il mondo stanno sopportando il peso maggiore della crisi climatica e i loro problemi sono stati accentuati dalla pandemia di Covid-19, che ha gravemente colpito le loro economie e la loro capacità di proteggersi da una possibile scomparsa politica e territoriale. Un rapporto di UN News fa il punto su alcune delle molte sfide che devono affrontare e a come potrebbero essere superate.
Basse emissioni, ma alta esposizione. I 38 Stati membri e i 22 membri associati che l’Onu ha designato come Small Island Developing States o SIDS sono prigionieri di un crudele paradosso: collettivamente sono responsabili di meno dell’uno per cento delle emissioni globali di carbonio, ma stanno soffrendo gravemente gli effetti del cambiamento climatico, tanto da poter diventare inabitabili.
Un News ricorda che «Sebbene abbiano una piccola massa continentale, molti di questi Paesi sono grandi stati oceanici, con risorse marine e biodiversità altamente esposte al riscaldamento degli oceani. Sono spesso vulnerabili a eventi meteorologici sempre più estremi, come i devastanti cicloni che hanno colpito i Caraibi negli ultimi anni e, a causa delle loro risorse limitate, trovano difficile stanziare fondi per programmi di sviluppo sostenibile che potrebbero aiutarli a meglio far loro fronte, ad esempio, la costruzione di edifici più robusti in grado di resistere a forti tempeste».
La pandemia di Covid-19 ha peggiorato la situazione economica di molti Stati insulari, fortemente dipendenti dal turismo. La crisi mondiale ha gravemente ridotto i viaggi internazionali, rendendo loro molto più difficile ripagare i debiti. Ad aprile, Munir Akram, presidente dell’United Nations economic and social council aveva lanciato un preoccupato allarme: «Le loro entrate sono praticamente evaporate con la fine del turismo, a causa di lockdowns, impedimenti commerciali, calo dei prezzi delle materie prime e interruzioni della catena di approvvigionamento. I loro debiti stanno creando problemi finanziari impossibili per la loro capacità di riprendersi dalla crisi».
La maggior parte delle ricerche indica che le isole formate da atolli poco elevati sul livello del mare, prevalentemente nell’Oceano Pacifico, come le Isole Marshall e Kiribati, rischiano di essere sommerse entro la fine del secolo, ma ci sono indicazioni che alcune isole diventeranno inabitabili molto prima che ciò avvenga: le low-lying islands rischiano di dover lottare con l’erosione costiera, la ridotta qualità e disponibilità di acqua dolce a causa dell’inondazione di acqua salata delle falde acquifere di acqua dolce. Questo significa che le piccole nazioni insulari potrebbero trovarsi in una situazione quasi inimmaginabile, nella quale esauriscono l’acqua dolce molto prima di esaurire la terra.
Inoltre, molte isole sono ancora protette da barriere coralline, che svolgono un ruolo chiave nell’industria della pesca e nelle diete equilibrate. Si prevede che, a meno che non limitiamo il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi Celsius, queste barriere coralline moriranno quasi del tutto
Nonostante l’enorme calo dell’attività economica globale durante la pandemia di Covid-19, la quantità di gas serra nocivi rilasciati nell’atmosfera è aumentata nel 2002 e gli ultimi 6 anni, 2015 – 2020, saranno probabilmente i sei più caldi mai registrati.
Il finanziamento climatico continua ad aumentare e nel 2017-2018 ha raggiunto una media annua di 48,7 miliardi di dollari. Ma rappresenta un aumento del 10% rispetto al precedente periodo 2015 – 2016. Mentre oltre la metà di tutto il sostegno finanziario specifico per il clima nel periodo 2017 – 2018 è stato destinato ad azioni di mitigazione, la quota del sostegno all’adattamento è in crescita e molti Paesi gli stanno dando la priorità. Per l’Onu, «Questo è un approccio conveniente, perché se non si investe abbastanza in misure di adattamento e mitigazione, sarà necessario spendere più risorse per azioni e supporto per affrontare perdite e danni.
Passare alle rinnovabili. Per soddisfare il loro fabbisogno energetico, i SIDS dipendono dal petrolio importato. Oltre a creare inquinamento, inviare il combustibile fossile alle isole ha un costo considerevole. Riconoscendo questi problemi, alcuni di questi Paesi hanno dispiegato con successo iniziative per passare alle fonti di energia rinnovabile.
Ad esempio, Tokelau, nel Pacifico meridionale, soddisfa quasi il 100% del proprio fabbisogno energetico attraverso le energie rinnovabili, mentre Barbados, nei Caraibi, si impegna ad alimentare il Paese con il 100% di fonti di energia rinnovabile e a raggiungere le zero emissioni di carbonio entro 2030.
Diversi SIDS hanno fissato obiettivi ambiziosi per le energie rinnovabili: Samoa, Isole Cook, Capo Verde, Fiji, Saint Vincent e Grenadine e Vanuatu puntano ad aumentare la quota di rinnovabili nei loro mix energetici, dal 60 al 100%, mentre nel 2018, le Seychelles hanno lanciato il primo sovereign blue bond al mondo, uno strumento finanziario pionieristico per sostenere progetti sostenibili per la pesca e marittimi.
Il potere della conoscenza tradizionale. Le pratiche secolari delle comunità indigene, combinate con le ultime innovazioni scientifiche, sono sempre più viste come modi importanti per adattarsi ai cambiamenti provocati dalla crisi climatica e mitigarne l’impatto.
In Papua Nuova Guinea viene usato l’olio di cocco prodotto localmente come alternativa più economica e sostenibile al diesel; in tutte le isole della Micronesia e della Melanesia nel Pacifico le navi utilizzano pannelli solari e batterie invece che moro a combustione interna; su isole come Tonga e Vanuatu vengono ripristinate le foreste di mangrovie per affrontare condizioni meteorologiche estreme e proteggere le comunità insulari dalle mareggiate, stoccando allo stesso tempo carbonio; nel Pacifico, una fondazione sta costruendo canoe polinesiane tradizionali (vakas), che servono come mezzo di trasporto sostenibile di passeggeri e merci per servizi sanitari, istruzione, soccorso in caso di calamità e ricerca.
Strategie per la sopravvivenza. Sebbene i SIDS siano riusciti ad attrarre l’attenzione sulla difficile situazione delle nazioni insulari vulnerabili, molto resta da fare per aiutarle a diventare più resilienti e ad adattarsi all’innalzamento del livello del mare e agli eventi meteorologici estremi.
In media, i SIDS sono più gravemente indebitati rispetto ad altri Paesi in via di sviluppo e la disponibilità di finanziamenti per il clima è di fondamentale importanza.
Più di un decennio fa, i Paesi sviluppati si sono impegnati a mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 a sostegno dell’azione climatica nei Paesi in via di sviluppo; l’importo che queste nazioni stanno ricevendo è in aumento, ma c’è ancora un significativo gap di finanziamento. Un articolo pubblicato di recente da UN News spiega come funzionano i finanziamenti per il clima e il ruolo delle Nazioni Unite.
Oltre all’adattamento e alla resilienza ai cambiamenti climatici, i SIDS hanno anche bisogno di supporto per aiutarli a prosperare in un mondo sempre più incerto. L’United Nations development programme (Undp), sta aiutando questi Paesi vulnerabili a diversificare con successo le loro economie, migliorare l’indipendenza energetica sviluppando fonti rinnovabili e riducendo la dipendenza dalle importazioni di combustibili, creare e sviluppare industrie del turismo sostenibile e passare a una blue economy che protegga e ripristini gli ambienti marini.
Lottare per il riconoscimento. Per anni, i SIDS ha cercato modi per aumentare la consapevolezza della propria situazione e ottenere supporto internazionale. Come Alliance of Small Island States (AOSIS), nel 1990 iniziarono a fare con successo pressioni per il riconoscimento delle loro particolari esigenze nel testo della storica United Nations framework convention on climate change (Unfccc), codsa che avvenne nel 1992. Da allora, questi piccoli Stati hanno continuato a spingere perché gli accordi internazionali includano l’impegno a fornire ai Paesi in via di sviluppo i fondi per adattarsi ai cambiamenti climatici. Un passo importante è stato garantire che i negoziati sul cambiamento climatico affrontassero la questione della “perdita e danno“, cioè risorse che sono perse per sempre, come le vite umane o le specie estinte, mentre i danni si riferiscono a cose che sono danneggiate, ma possono essere riparate o ripristinate, come strade, dighe ecc.
I SIDS continuano a sollecitare le nazioni sviluppate a mostrare più ambizione e impegno nell’affrontare la crisi climatica e sostengono con forza le richieste di una risoluzione delle Nazioni Unite per stabilire un quadro giuridico per proteggere i diritti dei profughi climatici e di nominare uno Relatore speciale su clima e sicurezza dell’Onu per aiutare a gestire i rischi per la sicurezza climatica e fornire supporto ai Paesi vulnerabili per sviluppare valutazioni del rischio per la sicurezza climatica.
I SIDS hanno anche sostenuto l’ammissibilità di finanziamenti per lo sviluppo che riconoscano le vulnerabilità che devono affrontare, inclusi i rischi del cambiamento climatico. L’Onu pubblicherà le sue raccomandazioni in un rapporto che dovrebbe essere pubblicato entro questo mese.