Dieci anni di greenreport, e un sasso nello stagno che rimbalza nel futuro
Nel gennaio 2006 prendeva vita il primo - e ancora oggi unico - quotidiano italiano per un'economia ecologica
[29 Gennaio 2016]
Esattamente dieci anni fa, quando nel gennaio 2006 vide la luce il primo numero di greenreport, il mondo cui s’affacciava era molto diverso da quello di oggi. Internet poteva dirsi ancora una realtà di nicchia, in Italia: solo il 14,4% della popolazione godeva di una connessione a banda larga per navigare, contro il 63% e passa di oggi. Facebook, Twitter e gli altri social network che oggi sono una costante nella vita dell’italiano moderno, nel 2006 erano solo deboli echi provenienti da oltre oceano. Si sarebbero avvicinati di gran corsa, insieme agli effetti della crisi economica che stava già detonando negli Usa.
In quel mondo, lanciare online un quotidiano “perché l’ambiente non è solo emozione” – questo era allora il motto di greenreport, e ancora oggi ne è una bussola –, era un po’ come lanciare un sasso nello stagno. Scagliato da Livorno, nella provincia dell’impero, grazie allo sforzo visionario dell’editrice Eco srl e del suo direttore Valerio Caramassi. In dieci anni, le onde concentriche suscitate a pelo d’acqua da quel lancio coraggioso fatto dal nostro primo e compianto direttore, Luciano De Majo, ne hanno fatta di strada. Greenreport ha combattuto battaglie, avviato collaborazioni prestigiose, dato vita a un proprio think tank. Ha incontrato molti amici e affezionati lettori, come anche la stizza di quanti – tanti – proprio non sopportano una lettura complessa di un macrotema che si vorrebbe rendere semplice, bidimensionale: l’ambiente.
Un approccio che in questi anni non ha smesso di guadagnare terreno, complice anche la marea montante di informazioni che nel mentre ha allagato il campo del dibattito, non sempre arrecando benefici. C’è chi ha provato a calcolare la quantità di informazioni con la quale noi moderni siamo bombardati ogni giorno. Nel 2013, risultò che il 90% di tutti i dati presenti nel mondo erano stati prodotti dall’homo sapiens sapiens solo negli ultimi due anni. Una tendenza ragionevolmente in progressione, portata sempre più in alto dalla pervasività della tecnologia (Internet in testa). Questo trend apparentemente inarrestabile ha portato con sé un gran numero di vantaggi, ma anche allargato qualche falla nella nostra capacità di comprendere davvero cosa ci accade attorno: dal rischio della poca informazione, lo sappiamo, siamo passati al suo opposto. Per dirla col sarcasmo di Umberto Eco, «ho sempre sostenuto che c’era poca differenza fra la Pravda stalinista e l’edizione domenicale del New York Times: la Pravda censurava le informazioni indesiderate, il Sunday Times invece conta ben 600 pagine, che sicuramente contengono All the news that’s fit to print, tutte le notizie che vale la pena stampare, ma che con altrettanta sicurezza nessuno riuscirà a leggere per intero, neppure nell’arco di una settimana. Rischiamo di restare sommersi da un eccesso di informazioni, e la differenza fra il silenzio e il troppo rumore è davvero minima».
In tale «eccesso di informazioni», anche ambientali, che pure nel nostro piccolo continuiamo ad alimentare, qual è la ragione dell’esistenza di questo giornale? Negli anni, il punto d’osservazione con cui greenreport non ha smesso di indagare il mondo in movimento è sempre stato quello della difesa dell’ambiente, del progresso e della giustizia. Della concreta difesa dell’ambiente, e non dell’ambientalismo spettacolo; rifuggendo le verità assolute, il bianco dell’ideologia purista e il nero delle “bombe ecologiche”, e inerpicandosi faticosamente in quella scala di grigi che ci circonda in questo mondo terribile, complicato e meraviglioso. Fra il fare nulla (e quindi l’abusivismo) e il fare male (e quindi l’associazione a delinquere), crediamo ancora che la strada del progresso umano che torna ad essere sostenibile – socialmente e ambientalmente – sia davvero percorribile, e non solo a parole. Che sia la vera resilienza l’unica speranza di riportare un equilibrio tra l’uomo e il pianeta che lo ospita, quello che viene chiamato, non sempre a proposito, sviluppo sostenibile.
Ma che cosa vuol dire, sviluppo sostenibile? Andando al di là delle definizioni classiche, nel lontano 2001 – un lustro prima della nascita di greenreport, dunque – il ministero dell’Ambiente definiva la sua “Strategia nazionale ambientale per uno sviluppo sostenibile”. Una strategia che aveva tra gli obiettivi principe quello della «riduzione dell’ingresso di materiali nel sistema socio-economico (mondiale, nazionale, regionale, industriale, urbano, familiare) mantenendo gli attuali livelli di qualità della vita ed anzi puntando a migliorare gli aspetti legati proprio all’eccessivo e distorto consumo di beni materiali ed a modelli di vita inutilmente dispendiosi». Hic Rhodus hic salta, si sarebbe detto una volta. Ma si è preferito non fare niente, e in questa confusione (politica, giuridica, normativa, informativa, ecc) l’ambiente non ha da che rimetterci; insieme a tutti noi, in definitiva.
Una prospettiva cui ancora non sappiamo, e non vogliamo, rassegnarci.
Sappiamo che le buone idee prendono forma e diventano consapevolezza, movimento e carica di cambiamento. E quando il cambiamento finalmente sboccerà, noi e i nostri lettori potremo dire: ci siamo stati. Per questo greenreport è diventato il primo – e ancora oggi l’unico – quotidiano italiano per un’economia ecologica.
La redazione