Il Pil aumenta, ma il benessere globale è in calo dal 1978: troppa disuguaglianza dei redditi e degrado ambientale
I costi della crescita economica hanno superato i vantaggi (già da 35 anni)
Le politiche di sviluppo devono avere come obiettivo il benessere economico, che è diverso dalla semplice ricchezza monetaria
[29 Luglio 2013]
C’è anche l’Italia tra i Paesi analizzati nello studio Beyond GDP: Measuring and achieving global genuine progress che un team di ricercatori statunitensi, australiani e britannici ha pubblicato su Ecological Economics osservando da una più ficcante prospettiva il tema della crescita economica, spiegando che «Mentre il prodotto interno lordo (Pil) mondiale è più che triplicato dal 1950, il benessere economico, così come stimato dal Genuine Progress Indicator (Gpi), è in realtà diminuito dal 1978».
I ricercatori hanno sintetizzato le stime del Pil tra il 1950 ed il 2003 per 17 Paesi (Australia, Austria, Belgio, Cile, Cina, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Italia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Svezia, Thailandia, Usa e Vietnam), analizzati sotto il profilo del Gpi. Si tratta di Paesi nei quali vive il 53% della popolazione mondiale e che producono il 59% del Pil mondiale.
«Abbiamo confrontato il Gpi con il prodotto interno lordo (Pil), l’Human Development Index (Hdi), l’impronta ecologica, la biocapacità, il coefficiente Gini ed il coefficiente di soddisfazione per la vita – si legge su Ecological Economics – I risultati dimostrano una variazione significativa tra questi Paesi, ma alcune tendenze principali. Abbiamo stimato anche un Gpi globale/pro capite nel periodo 1950-2003. Il Gpi/pro capite ha raggiunto il picco nel 1978, ovvero circa nello stesso periodo in cui l’impronta ecologica globale ha superato la biocapacità globale. La soddisfazione di vita in quasi tutti i Paesi non è migliorata in modo significativo dal 1975.
A livello globale, se ci fosse una distribuzione del reddito più equa in tutto il pianeta, l’attuale Pil mondiale (67 trilioni di dollari/anno) potrebbe sostenere 9,6 miliardi di persone a 7.000 dollari pro capite. Anche se il Gpi non è un indicatore di benessere economico perfetto, è una approssimazione di gran lunga migliore di quella del Pil. Le politiche di sviluppo devono passare a conteggiare davvero e meglio il benessere e la crescita, non solo il Pil».
Quindi, le politiche di sviluppo dovrebbero urgentemente passare dal cercare di massimizzare la produzione e il consumo al miglioramento del benessere reale, e potrebbero iniziare a farlo redistribuendo le risorse che già ci sono. Lo studio mette nero su bianco, fornendo cifre e dati, quella che non è più soltanto un’impressione: sebbene il Pil sia in media più che triplicato nei 17 Paesi presi in esame, dal 1978 il benessere sociale complessivo è diminuito. La spinta propulsiva del capitalismo sembra quindi essersi arenata alle soglie dei favolosi anni ’80 della deregulation e dell’edonismo reaganiano, e affondata sotto i colpi della globalizzazione dell’ipercapitalismo finanziario che ci ha portato agli anni 2000 del nostro scontento.
Tra i fattori presi in considerazione dal Genuine Progress Indicator globale ci sono la distribuzione del reddito in ogni Paese, insieme al lavoro domestico e al volontario (attività che migliorano il benessere, ma non coinvolgono transazioni monetarie), e il costo del degrado ambientale.
Uno degli autori, Robert Costanza, dell’Australian National University in un’intervista a SciDev.Net ha sottolineato: «Abbiamo ottenuto alcuni risultati molto interessanti che dimostrano che il Gpi globale pro capite ha raggiunto il picco nel 1978. Ciò significa che, da quell’anno, a livello globale, i costi esterni della crescita economica hanno superato i benefici».
Ma la scoperta più sensazionale è quella della conferma del vecchio adagio “i soldi non fanno la felicità”: il Gpi non aumenta una volta che il Pil pro capite raggiunge circa i 6.500 dollari all’anno. Secondo la principale autrice dello studio, Ida Kubiszewski, anche lei dell’Australian National University , «Pil e Gpi hanno cominciato ad andare in direzioni diverse quando i guadagni globali pro capite hanno raggiunto questa somma. Dopo di che, il Pil ha continuato a crescere, ma i Gpi si sono stabilizzati o sono addirittura diminuiti. Questa divergenza si verifica perché i guadagni sono stati fatti negli ultimi pochi decenni sono stati controbilanciati dai costi, soprattutto dal degrado ambientale e dall’aumento dell’ineguaglianza dei redditi». Gli autori fanno notare anche che «Lo studio evidenzia la necessità di adottare un approccio più ponderato per misurare il successo di una società».
Walter Pengue, un esperto argentino di economia ambientale dell’università nazionale General Sarmiento, che non ha partecipato allo studio, è rimasto molto colpito dalle conclusioni: «Mettono insieme un sacco di informazioni che possono essere facilmente comprensibili, non solo dagli scienziati, ma soprattutto dai decision-makers, che è la sfida principale. Lo studio offre un contributo prezioso per la realizzazione di un indicatore unico per valutare i progressi dello sviluppo, in quanto valuta il Gpi come un indicatore che cerca di integrare una serie di questioni che il Pil non coglie».