Le Soprintendenze e il patrimonio culturale italiano nel vortice della riforma Renzi
[14 Maggio 2014]
Su La Repubblica di ieri, martedì 13 maggio, Salvatore Settis esprime una valutazione circa ruolo e funzioni delle Soprintendenze in relazione alle intenzioni di riforma esternate dal governo.
Se nulla vi è da eccepire circa la funzione civile del patrimonio culturale come stabilito dalla Costituzione, discutibile appare una innata fiducia verso le Soprintendenze in assenza di una verifica reale del loro funzionamento, di che cosa hanno prodotto oppure di che cosa non sono riuscite a produrre.
E’ innegabile che nelle Soprintendenze ci sono state e ci siano competenze e conoscenze la cui indipendenza deve essere assicurata rispetto alla politica, ma non si può sottacere che vi siano state anche insufficienze (basterebbe parlare della gestione di molti musei statali per averne palese cognizione, e non è solo un problema di risorse, che pure esiste).
Forse in proposito l’esempio più calzante è quello della gestione del vincolo paesaggistico, soprattutto la dove questo è stato posto con specifico decreto, magari negli anni cinquanta del secolo scorso.
Ebbene, quel vincolo non ha fermato la speculazione prima, non ha prodotto una innovazione del prodotto edilizio ed architettonico dopo.
Si può discettare delle previsioni eccessive dei piani regolatori e di errate politiche di governo del territorio da parte dei comuni. Certamente ci sono stati errori e furberie, interessi speculativi che sono stati premiati. Ma se si vuole una svolta si deve anche avere il coraggio di dire che molte costruzioni sulle coste sono state avvallate dalle Soprintendenze, anzi, almeno fino alla “legge ponte” del 1967, sono state prima le Soprintendenze a sancire i progetti che poi venivano recepiti dai Comuni; di dire che anche negli ultimi anni si è privilegiata una architettura vernacolare e di mero “scimmiottamento” di stilemi del passato, deprimendo l’innovazione, la qualità tecnologica delle costruzioni, l’architettura moderna.
Non sono estranei a questa vicenda le categorie professionali e i costruttori, ma è pur vero che se veramente si vuole perorare e conseguire una svolta di qualità degli insediamenti e delle costruzioni i conti con questo passato bisogna farli e senza indulgenza. Altrimenti continuiamo nella pratica degli schieramenti.
Certamente chi amministra media e sbaglia anche, ma se anche le trasformazioni dell’esistente sono considerate al pari delle nuove urbanizzazioni è evidente che non si va da nessuna parte.
Ha ragione Settis a sostenere che le Soprintendenze debbono superare la loro natura burocratica per costituirsi pienamente come istituti di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica. Se è così però occorre andare oltre la forma attuale di controllori con la penna blu e rossa che cala in funzione, non già di idee e tendenze condivise, ma di sentire personale.
Invece, sia concesso, anche nel caso meritorio della formazione dei piani paesistici – che è bene ricordarlo arrivano con un ritardo di almeno mezzo secolo – non sembra si sia voluto fare i conti con il passato, con la gestione del vincolo e con lo stato del territorio. Anzi, si continua a sostenere la motivazione del vincolo, magari del 1953 “territorio predetto, nel suo complesso, offre aspetti di particolare bellezza naturale e comprende anche dei punti di vista accessibili al pubblico dai quali si godono dei quadri di singolare bellezza”, ad interpretarlo con parole “moderne”, si da il caso però che allora il centro urbano era limitato e le espansioni periferiche inesistenti, gli “svillettamenti” non pervenuti, ovvero sono arrivati dopo, come si dice “con bolli e ceralacca”.
Insomma, ben venga la Soprintendenza istituto di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica, ma a condizione di non obliterare il passato e di non voler imporre soluzioni, cioè a condizione di costituire strutture di incontro, confronto e crescita culturale degli operatori territoriali in prima istanza, della cittadinanza, in generale. E questa è una necessità, e dovrebbe essere un impegno anche per le regioni e gli enti locali.
di Mauro Parigi
Le opinioni espresse dall’autore non rappresentano necessariamente la posizione della redazione