È il Trentino-Alto Adige la migliore regione dove essere mamme, all’ultimo posto la Calabria (VIDEO)

[5 Maggio 2016]

Secondo il nuovo Mothers’ Index italiano di Save the Children, «Le mamme oggi in Italia sono in media un po’ più avanti negli anni, 31 e mezzo alla nascita dei figli, e molto raramente sono teenagers (meno di 2.000 i figli nati da madri minorenni), ma tutte, indistintamente, condividono una condizione inequivocabile di svantaggio sociale, professionale ed economico. Le donne nel nostro Paese sono infatti costrette a un difficile equilibrismo tra la scelta di maternità e il carico dovuto alle cure familiari, ancora molto sbilanciato sulle loro spalle e reso ancor più gravoso dalla carenza di servizi di sostegno sul territorio, facendo al tempo stesso i conti con un mercato del lavoro che le penalizza a priori in quanto donne e diventa un problema ancora più grande quando arrivano i figli».

Il Mothers’ Index italiano, sviluppato sulla base dell’analogo indice mondiale dell’Organizzazione, incrocia in modo ragionato sette tra i principali e più recenti indicatori disponibili per diverse fasce d’età, quali il tasso di fecondità, l’indice di asimmetria nel lavoro familiare, il tasso di occupazione femminile e quello di mancata partecipazione al mercato del lavoro, l’indice di presa in carico degli asili nido e dei servizi per la prima infanzia e la frequenza della scuola dell’infanzia.

Ne viene fuori che  la regione italiana più “mother friendly è il Trentino Alto Adige, seguita da Valle d’Aosta,  Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Piemonte e dalle altre regioni del nord, «che mostrano in generale condizioni più favorevoli alla maternità»,  La Regione meno amica delle mamme è invece la Calabria, preceduta di poco da altre regioni del Sud: Puglia, Basilicata, Sicilia e Campania.

Save the Children sottolinea che «Si tratta di uno squilibrio territoriale tra nord e sud confermato anche nel dettaglio di ciascuna dimensione che compone l’indice relativo a cura, lavoro e servizi per l’infanzia. Anche osservando solo l’aspetto della cura familiare, infatti, l’Emilia Romagna si colloca al 1° posto mentre all’ultimo troviamo la Calabria, e rispetto all’accesso delle donne al mondo del lavoro il Trentino Alto Adige è la regione più virtuosa, la Campania quella meno. Per quanto riguarda l’offerta di servizi pubblici per l’infanzia la Valle d’Aosta si segnala al 1° primo posto e la Basilicata all’ultimo».

Questa mappa regionale della maternità in Italia viene presentata e analizzata nei suoi vari aspetti nel nuovo rapporto “Le Equilibriste – Da scommessa a investimento: maternità in Italia”, diffuso da Save the Children alla vigilia della Festa della Mamma 2016 e Raffaela Milano, direttrice Programmi Italia-Europa di Save the Children, evidenzia che «Al di là della mappatura regionale sullo stato delle madri, con questo rapporto abbiamo anche cercato di leggere la realtà del nostro Paese dal punto di vista delle mamme. Ne viene fuori uno spaccato dove le disparità di genere hanno ancora un impatto negativo decisivo sulla vita delle mamme. Donne che si ritrovano a svolgere, anche loro malgrado, un ruolo predominante nell’assicurare il benessere di bambini, adulti e anziani, senza alcuna retribuzione, ma pagando, al contrario, e in prima persona, un prezzo molto elevato nel mancato sviluppo personale e professionale». Problemi che si potrebbero riiassumere con uno slogan: “Famiglia tanta, lavoro poco”. «Se nel 2015 l’Italia si posiziona al 41° posto su 145 paesi nel rapporto globale sulle disparità di genere, segnando un miglioramento della condizione femminile rispetto a istruzione e presenza nelle istituzioni – spiegano a Save the Children – la nostra posizione crolla al 111° posto se si prende in considerazione solo l’accesso delle donne al mercato del lavoro. Un dato particolarmente negativo che trova una spiegazione nell’impegno preponderante, in particolare delle donne madri, nel lavoro di cura familiare».

Secondi o il rapporto, «La pressione del lavoro di cura familiare riguarda in Italia circa 8 milioni di mamme tra i 25 e 64 anni che convivono con figli under 15 o under 25 ma ancora dipendenti economicamente da loro, ma si concentra maggiormente su quelle con almeno un figlio sotto i 5 anni (2,7 milioni di mamme) o tra i 6 e gli 11 anni (2 milioni). L’aumento nel corso degli ultimi vent’anni delle separazioni (+70,7%) e dei divorzi (+100%), inoltre, ha moltiplicato il carico di cura ma in misura molto diversa tra uomini e donne, in sfavore di queste ultime: quasi una mamma su due (45,5%) tra i 35 e i 54 anni separata o divorziata vive da sola con i figli contro l’8,4% degli uomini. Il carico preponderante di cure familiari per le mamme si intreccia con un mercato del lavoro che in Italia ne taglia fuori metà tra i 25 e i 64 anni, mentre solo una su tre in Europa trova le porte del lavoro chiuse (32,1%). L’accesso al lavoro delle mamme in Italia si riduce ulteriormente se aumenta il numero dei figli: tra i 25 e i 49 anni il tasso di occupazione materna con 1 figlio è pari al 58,6%, ma si ferma a 54,2% se i figli sono 2 e non supera il 40,7% con 3 o più figli. Un dato fortemente sbilanciato rispetto agli uomini occupati rispettivamente all’81,7%, 86,2% e 81,6%. Il divario di genere tra i 25 e i 49 anni è ancora più ampio se il grado di istruzione dei genitori è più basso e ci sono 3 o più figli: se il livello è inferiore al secondario superiore solo il 22,5% delle mamme trova lavoro contro il 72,5% dei padri, mentre con un livello di istruzione terziario e un solo figlio l’occupazione materna sale al 73,5% e quella paterna all’83,7%. Anche quando lavora, 1 mamma su 3 si ritrova a fare ricorso al part-time, percentuale che cresce con il numero dei figli. L’8,7% delle mamme che lavora o ha lavorato, poi, ha sperimentato un licenziamento forzato in caso di gravidanza, e la percentuale delle dimissioni in bianco sale ulteriormente se si tratta delle donne più giovani. In questo quadro bisogna tenere anche conto dei fenomeni di segregazione orizzontale, per cui le donne lavorano in settori economici diversi da quelli degli uomini (servizi, cura e relazione con le persone), del differenziale salariale (6,5% nel 2014), e della segregazione verticale in termini di percorsi di carriera (le donne costituivano solo il 27,6% sul totale dei dirigenti nel 2015)».

Il rapporto di Save the Children utilizza un’altra calzante definizione per la situazione delle mamme italiane: “Equilibriste loro malgrado” e fa notare che «L’accesso al mercato del lavoro delle mamme dipende dalla possibilità di trovare un equilibrio soddisfacente tra la loro vita personale e quella lavorativa. Su questa sfida grava fortemente la diversa distribuzione del lavoro familiare tra uomini e donne. Se si considera l’uso della risorsa più preziosa, il tempo, le donne italiane over15 dedicano al lavoro familiare non retribuito circa 5 ore e 9 minuti al giorno, contro le 2 ore e 22 minuti degli uomini, mentre in Norvegia, ad esempio, dove l’uguaglianza di genere è maggiore, l’impegno femminile in famiglia scende a 3 ore e 31 minuti. Uno squilibrio che è ben rispecchiato dall’indice di asimmetria del lavoro familiare in Italia, che è pari al 71,9% per le coppie in generale, e che sale a 72% per quelle sposate con figli, con una maggiore incidenza al sud (75,8%)».

Le soluzioni ci sono, ma occorre un cambiamento culturale, sociale e politico. Ecco come il rapporto descrive la situazione della famiglia italiana con figli:: «Le possibili strategie familiari e informali per raggiungere una migliore conciliazione e condivisone possono far leva sul cambiamento culturale in corso che, secondo studi recenti, vede il 70,3% dei padri italiani d’accordo sull’equa ripartizione della cura dei figli tra uomini e donne, e una percentuale tra l’80 e il 90% di loro ritiene normale partecipare alle attività più specifiche di cura dei piccoli come dar loro da mangiare, raccontare fiabe, addormentarli o accompagnarli ad attività extracurriculari. Un buon presupposto, anche se, ad oggi, quasi la metà (42,7%) delle mamme che lavorano segnalano difficoltà concrete nel conciliare il loro impiego con le cure familiari e non raramente questo si traduce nella soluzione più estrema, con l’abbandono del lavoro che coinvolge il 30% delle madri con meno di 65 anni e in più della metà dei casi è dovuta alla nascita di un figlio. Guardandosi intorno in cerca di sostegno, le mamme con un figlio dagli 0 ai 3 anni trovano per lo più l’aiuto dei nonni, nel 51,4% dei casi, quello di un asilo nido, 38,8%, di una colf, baby-sitter o badante (4,2%) o di altri familiari (2,5%), e solo nel 3,3% dei casi quello del compagno o del marito. La prevalenza dei nonni nel sostegno alle mamme, non è però risolutivo: molte sono quelle che non possono contare su di loro, e questo tipo di aiuto è destinato ad assottigliarsi sia per effetto dell’aumento dell’età media delle madri che per il prolungamento dell’età lavorativa dei nonni stessi. Inoltre, bisogna considerare che il 29,7% delle mamme lavoratrici che hanno un figlio 0-3 anni che non frequenta l’asilo nido desidererebbero che non fosse così, e indicano come maggiori ostacoli la retta tropo cara (50,2%) o la mancanza di posti (11,8%). La presa in carico tra 0-3 anni degli asili nido e dei servizi integrativi e innovativi per la prima infanzia in Italia è infatti ferma al 13%, con il picco positivo in Emilia Romagna (26,8%) e il dato peggiore in Calabria (2,1%). Uno scenario desolante che cambia però radicalmente per i bambini dai 4 ai 5 anni, che nel 95,1% dei casi frequentano la scuola dell’infanzia».

Raffaela Milano sottolinea ancora: «Per sostenere concretamente le mamme in Italia è necessario intervenire sia sul piano dei servizi che sul piano del lavoro. E’ fondamentale rafforzare la rete dei servizi per la prima infanzia, in alcune aree del Paese oggi di fatto inesistente e, allo stesso tempo, occorre favorire e incentivare un cambiamento nel mondo del lavoro, sia pubblico che privato, affinché non penalizzi più, ma anzi valorizzi, le donne che sono mamme e che lavorano. Alcuni segnali interessanti, anche se ancora limitati, vengono dal settore privato, la scelta operata dal 37% delle aziende italiane che hanno flessibilizzato l’orario di lavoro, o il 17,5% che ha attivato asili nido, servizi sociali, di assistenza, ricreativi o di sostegno con benefici riscontrabili su produttività e qualità del lavoro»

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