Successo di Legambiente e Wwf alla Corte d’appello di Trieste, in attesa della Cassazione
Non serve querela per perseguire i bracconieri, sciolto il nodo della riforma Cartabia
«Questo risultato testimonia l’importanza del ruolo delle associazioni di protezione ambientale nello stimolare un’attenta interpretazione giurisprudenziale»
[13 Marzo 2024]
Con la sentenza n. 360/2024 emessa dalla Corte d’appello di Trieste, dove Legambiente e Wwf si erano costituite parte civile, arriva un duro colpo per il bracconaggio.
Si tratta di un punto fondamentale nella risoluzione di una questione sorta a seguito della riforma Cartabia del processo penale (d. lgs. 150/2022) per cui, seguendo una interpretazione non corretta, sarebbe risultato impossibile applicare il reato di “furto venatorio” contro i bracconieri, privando così le forze di polizia e la Magistratura di uno degli strumenti più efficaci nella lotta al bracconaggio.
La riforma Cartabia ha infatti modificato i presupposti di procedibilità del reato di furto, prevedendo, per una numerosa serie di ipotesi, l’impossibilità per le procure di agire d’ufficio, cioè in maniera autonoma, e la necessità, per la parte che ha subito il furto, di presentare una querela contro l’autore del reato. Una condizione di fatto impossibile quando il furto è compiuto ai danni dello Stato.
La legge identifica infatti la fauna selvatica come patrimonio indisponibile dello Stato (Art. 1 L. 157/1992) e nel corso degli anni la giurisprudenza ha riconosciuto il principio secondo cui, chiunque, fuori dai casi consentiti (es. caccia), uccide o cattura un animale selvatico, commette un furto ai danni dello Stato, perché lo priva di una parte del proprio patrimonio indisponibile, con l’applicazione dell’aggravante prevista per i casi indicati all’art. 625 del codice penale, come il furto di cose esposte alla pubblica fede.
Si è quindi posta la questione se la perseguibilità d’ufficio dovesse essere esclusa anche per la fauna selvatica, comprendendola tra le cose esposte alla pubblica fede.
I giudici di Trieste hanno dunque chiarito che “come correttamente argomentato dal difensore delle parti civili Wwf Italia e Legambiente Fvg, trattasi di furti commessi non solo su animali esposti per necessità a destinazione alla pubblica fede, ma anche su beni destinati a pubblica utilità, come recita la parte finale dell’art. 625 n. 7 c.p., trattandosi di fauna selvatica autoctona destinata alla fruibilità collettiva, a tutela della conservazione dell’ambiente naturale in tutte le sue componenti, vegetale e animale in primis” e hanno concluso ravvisando l’esistenza di una “duplice aggravante, con conseguente procedibilità d’ufficio dei reati de quo”.
«Esprimiamo soddisfazione per questo primo fondamentale traguardo – dichiarano congiuntamente Legambiente e Wwf – Questo risultato testimonia l’importanza del ruolo delle associazioni di protezione ambientale nello stimolare un’attenta interpretazione giurisprudenziale delle norme di tutela ambientale. Apprezziamo in particolare la lucida analisi dei giudici triestini che hanno accolto pienamente le nostre argomentazioni e confidiamo che anche la Cassazione esprima lo stesso orientamento».