Proposta di legge caccia selvaggia: pericolosa, incostituzionale e viola le Direttive europee

Le osservazioni delle associazioni ambientaliste e animaliste alle modifiche della destra alla legge sulla caccia

[31 Gennaio 2024]

Il 15 novembre 2023, i deputati Francesco Bruzzone, Davide Bergamini; Mirco Carloni e Attilio Pierro della Lega per Salvini Premier hanno presentato la  Proposta di Legge A.C. n. 1548 “Modifiche alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”, che è subito stata ribattezzata “Legge Caccia Selvaggia” e che è attualmente in discussione in Commissione Agricoltura della Camera, con relatore lo stesso primo presentatario: Bruzzone.

ENPA, LAC, LAV, Legambiente, LEIDAA, LIPU, LNDC Animal Protection, OIPA, Federazione  Nazionale Pro Natura e Wwf Italia  hanno presentato una serie di osservazioni e proposte emendative ed evidenziano gli aspetti di pericolosità e le violazioni costutuzionali e delle Direttive europee della proposta di legge caccia selvaggia. Ecco il testo integrale delle osservazioni delle associazioni ambientaliste e animaliste:

 

Considerazioni introduttive

Il Disegno di legge in discussione persegue il dichiarato obiettivo di modificare alcuni articoli della Legge 157/1992, “per renderli più aderenti alla realtà in conseguenza dei cambiamenti sopravvenuti dal tempo nel quale tale legge fu approvata”.

Si rileva, in primo luogo, come le modifiche proposte non siano in alcun modo coerenti con le finalità che si dichiara di voler perseguire in quanto, nel caso in cui dovessero essere approvate, porterebbero ad un indebolimento della legge speciale in termini di efficacia nel raggiungimento degli obiettivi nella medesima indicati e dunque ad un aggravamento delle principali problematiche manifestatesi nel corso degli anni di sua vigenza. Si rammenta, a tal fine, che la L. 157/1992 recepisce nel nostro ordinamento i principali principi racchiusi nelle convenzioni internazionali e nella normativa europea in tema di tutela della fauna selvatica. La riduzione dei livelli di tutela sanciti dalla norma nazionale comporterebbe, dunque, una diretta violazione delle disposizioni sovranazionali e internazionali di cui la stessa è espressione.

Se, difatti, si ritiene necessario adeguare la norma ai cambiamenti sopravvenuti non può omettersi di considerare che la principale novità introdotta nell’ordinamento consiste nel disposto di cui alla L. cost. 1/2022, con la quale sono stati integrati gli articoli 9 e 41 della Costituzione, con l’inserimento nel primo, della tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali tra i principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano. Tale innovazione sopravvenuta comporta il rafforzamento dei principi che regolano il bilanciamento tra contrapposti interessi in materia ambientale, rispetto a quanto già chiaramente indicato dalla stessa L. 157/1992 e dall’intero panorama normativo e giurisprudenziale vigente.

Il raffronto tra i contrapposti interessi, nel caso di specie tra la tutela della fauna selvatica e degli animali e lo svolgimento della pratica venatoria, è difatti centrale al fine di consentire all’interprete e, in questa sede, allo stesso Legislatore, di valutare quale debba essere l’approccio da adottare in sede di applicazione o di modifica di una norma.

In concreto, è agevole individuare quale sia l’interesse preminente, ricorrendo ad una logica considerazione: la caccia è un’attività meramente ludica e ricreativa, le cui finalità non 1 necessariamente coincidono con l’interesse pubblico alla tutela e alla gestione della fauna selvatica e alla tutela degli animali rispetto al quale, al contrario, questa può divergere, anche in maniera profonda.

Tale considerazione trova supporto dal dettato normativo, in particolare dalla lettura dell’art. 1 della L. 157/1992, ai sensi del quale, da una parte, si disponeva, anche prima della recente modifica costituzionale, che la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato e che la sua tutela sia approntata “nell’interesse della comunità nazionale e internazionale” e dall’altra, si chiarisce che lo svolgimento dell’attività venatoria è subordinato alla superiore esigenza di conservazione delle specie animali selvatiche e di non danneggiamento delle produzioni agricole. Questo principio detta i termini interpretativi dell’intera norma.

L’adeguamento normativo deve, dunque, essere costituzionalmente orientato e non può comportare una deroga in peius dell’attuale, e ad oggi inadeguato, sistema di tutela della fauna selvatica.

La proposta in esame, al contrario, è fondata su una totale inversione dell’ordine gerarchico tra gli interessi in gioco, in virtù della quale l’esigenza di tutela della fauna selvatica viene annullata e piegata alla volontà di praticare l’attività venatoria in maniera più libera e meno regolamentata possibile.

Preoccupa, altresì, il fatto che la proposta di legge venga presentata nonostante l’apertura, nel solo anno 2023, di ben due procedure EUP1 – EUP(2023)10419; EUP(2023)10542 -, attivate dalla Commissione europea all’indomani delle due più recenti modifiche di cui è stata fatta oggetto la L. 157/1992. Entrambe le procedure europee riguardano la violazione delle normative sovranazionali di tutela della fauna selvatica e della salute e, per una delle due, la Commissione ha già formalmente dichiarato l’intenzione di procedere alla trasformazione in procedura d’infrazione.

La proposta in discussione non prevede, infatti, alcun rafforzamento del sistema sanzionatorio (che al contrario viene modificato solo per eliminare alcune sanzioni), di vigilanza e di tutela delle specie in cattivo stato di conservazione, né l’abrogazione delle recenti modifiche inserite in tema di utilizzo delle munizioni di piombo nelle zone umide (in contrasto con il Reg. UE 21/57) e neppure il ripristino della versione originaria dell’art. 19, la cui riforma, introdotta con L. 197/2022, come detto, costringerà i cittadini italiani, tutti, non solo i cacciatori, a subire le pesanti conseguenze dell’apertura di una nuova procedura d’infrazione (l’ennesima in materia ambientale a carico dell’Italia).

Analisi dell’articolato

Gli articoli 1 e 5, puntano ad escludere dall’applicazione della L. 157/1992 gli animali appartenenti alle specie selvatiche allevate in cattività e utilizzati come richiami vivi. A supporto motivazionale di tale modifica viene fatto riferimento a pronunce giurisprudenziali molto risalenti nel tempo, che peraltro fanno riferimento a circostanze da ricondursi nell’ambito della normativa dettata dalla Convenzione di Washington, che disciplina il commercio di specie animali e vegetali protette e non della L. 157/1992.

La modifica, se accolta, sottrarrebbe gli animali allevati alla tracciabilità prevista dalla legge 157/1992 ed essenziale al fine di consentire alle pubbliche autorità di verificare se gli animali sono effettivamente provenienti da allevamento o catturati in natura. È risaputo che in Italia esistano ed operino organizzazioni criminali dedite al traffico di uccelli selvatici catturati illegalmente in natura e destinati ad essere inseriti nel mercato illegale dei richiami vivi, attraverso l’apposizione di anelli identificativi contraffatti. Operazioni condotte nel 2023 dal Comando Unità Forestali Ambientali e Agroalimentari dell’Arma dei Carabinieri, testimoniano come queste rotte di traffico illegale che coinvolgono l’Italia siano consolidate sia all’interno del territorio nazionale, sia ad un livello internazionale. Nel mese di novembre 2023 sono infatti stati sequestrati circa 400 tordi catturati illegalmente nelle regioni del Sud Italia e diretti verso il Nord, mentre nel mese di giugno è stata sgominata una organizzazione dedita al traffico di turdidi catturati nei Paesi dell’Est Europa e destinati agli allevamenti di Veneto e Lombardia. In quella occasione sono stati sequestrati 559 animali. Nel corso della Operazione Pettirosso 2023 sono stati inoltre sequestrati 3.564 uccelli, oltre a migliaia di strumenti di cattura illegale e nel 2022, ad un solo allevatore di tordi, sono stati sequestrati ben 172 mila euro in contanti frutto di attività illecite.

A fronte di tale evidente illegalità e nonostante la Commissione europea continui a chiedere all’Italia di adeguarsi alle norme sovranazionali, la proposta in esame prevede una generale esclusione nell’applicabilità della L. 157/92, basata su elementi formali e non su una valutazione caso per caso. In altri termini, piuttosto che fornire maggiori strumenti alle autorità investigative e agli organi inquirenti e giudicanti, si favoriscono enormemente i trafficanti.

Anche il Regolamento europeo (CE) n. 865/2006, che attua la Convenzione CITES, prevede che le generazioni successive degli animali allevati in allegato A siano dotati di sistema di marcatura, condizione che è imposta anche a tutti gli animali che nascono negli zoo.

È fondamentale a tal proposito evidenziare che dal punto di vista scientifico non è possibile stabilire, in base ad un mero riferimento fenotipico, il grado di parentela fra gli individui essendo, al contrario, indispensabili analisi genetiche per ciascun individuo nonché la registrazione di tutte le informazioni genetiche relative alle differenti generazioni, in apposite banche dati istituzionali, come avviene per diverse specie animali presso i laboratori di genetica di ISPRA. In assenza di sistemi di marcaggio, dunque, che nel caso di uccelli sono rappresentati dagli anelli inamovibili, non è possibile dimostrare in alcun modo che un dato esemplare discenda o meno da una specifica coppia di riproduttori o se quell’esemplare sia nato in cattività oppure provenga dalla vita selvatica.

Con gli articoli 2 e 6 si intende scardinare uno dei più importanti sistemi di garanzia che l’attività venatoria sia effettuata in maniera coerente con le mutevoli condizioni dei territori e delle popolazioni di animali selvatici, attraverso l’approvazione del calendario venatorio regionale con una legge di validità quinquennale e non con un atto amministrativo annuale. L’art. 6 lett. C) prevede, inoltre la possibilità di cacciare 7 giorni su 7 e l’abrogazione del silenzio venatorio.

Aldilà di quanto formalmente dichiarato nella relazione introduttiva della proposta di legge in esame, il malcelato obiettivo perseguito dai proponenti è quello di eludere il rischio di impugnazione dei calendari venatori regionali da parte delle associazioni di protezione ambientale e la conseguente possibilità che, a fronte della illegittimità di questi provvedimenti, l’attività venatoria (esercitata nella formale liceità ma in violazione con le norme a tutela delle specie) venga sospesa e che le regioni siano costrette da provvedimenti giudiziari a correggere i calendari. L’obiettivo perseguito è inoltre 3 quello di ridurre ulteriormente il valore dei pareri scientifici rilasciati da ISPRA.

Riteniamo che tale misura sia particolarmente grave sia nel suo valore pratico, in quanto, come si dirà, priva lo Stato degli strumenti necessari a scongiurare che lo svolgimento della caccia (una mera attività ricreativa) possa arrecare danni irreversibili alla fauna selvatica (la cui tutela è sancita dalla Costituzione quale principio fondamentale dell’Ordinamento); sia sotto il profilo simbolico, perché non solo non riconosce il valore dell’attività delle associazioni di protezione ambientale nell’evitare tali danni irreparabili, ma si pone in palese ostilità nei confronti delle stesse associazioni che tutelano interessi diffusi di valore costituzionale a favore dell’intera collettività.

I proponenti dichiarano che la modifica sia mirata a “dare certezza del diritto agli utenti del settore, ossia i cacciatori”. Ebbene, la certezza del diritto può essere data, tanto alla minoranza di cacciatori (0,9% della popolazione italiana), quanto alla maggioranza di cittadini italiani che cacciatori non sono (il 99,1% degli italiani), solo per mezzo dell’adozione, da parte delle regioni italiane, di calendari venatori coerenti con i pareri scientifici dell’Istituto Superiore di Protezione e Ricerca Ambientale e con l’obbligo di tutela previsto dalla normativa nazionale, europea e internazionale.

Non si può sottacere, a tal riguardo, che esiste una tendenza, radicata, sistematica e strutturale, di violazione delle norme di tutela della fauna selvatica da parte della maggioranza delle regioni italiane, le quali non riescono a gestire il peso delle pressioni politiche esercitate dalla lobby venatoria e dei produttori e commercianti di armi e munizioni, portando funzionari pubblici a redigere atti che loro per primi sanno essere palesemente illegittimi e destinando ingenti risorse di tutti i cittadini per pagare le spese di gestione di processi amministrativi dal destino segnato. Questa tendenza è reiterata negli anni, nonostante provvedimenti giudiziari negativi. La cronaca di questi anni consente di potere dichiarare, con piena coscienza e cognizione, che oggi le Regioni non sono idonee a fornire una sufficiente garanzia d’imparzialità nella gestione delle politiche venatorie e faunistiche. Questa garanzia, come detto, è oggi incarnata proprio dalle associazioni di protezione ambientale che, investendo proprie risorse economiche ed assumendosi i rischi processuali, ogni anno, riescono a bloccare attività che successivamente si rivelano autorizzate con provvedimenti illegittimi il cui svolgimento, in caso contrario, avrebbe nella formale e solo apparente liceità, arrecato danni irreparabili alla biodiversità e al superiore interesse costituzionale di conservazione della fauna selvatica e di tutela degli animali.

L’emanazione di un calendario venatorio per legge, peraltro con cadenza quinquennale, comporterebbe l’impossibilità di agire con la necessaria velocità nel caso in cui la legge medesima dovesse presentare profili di violazione delle norme di tutela impedendo, anche in casi di particolare urgenza, di impedire danni irreversibili determinati dalla uccisione indebita di animali.

L’importanza del calendario venatorio regionale emanato su base annuale/stagionale è insita anche nella necessità di adeguare lo strumento a mutate o improvvise modifiche dello status di alcune popolazioni di specie selvatiche o a situazioni straordinarie di tipo ambientale e meteoclimatico, oggi sempre più frequenti.

La Corte Costituzionale ha più volte ribadito come: «appare evidente che il legislatore statale, prescrivendo la pubblicazione del calendario venatorio e contestualmente del “regolamento” sull’attività venatoria e imponendo l’acquisizione obbligatoria del parere dell’ISPRA, e dunque esplicitando la natura tecnica del provvedere, abbia inteso realizzare un procedimento amministrativo, al termine del quale la Regione è tenuta a provvedere nella forma che naturalmente ne consegue, con divieto di impiegare, invece, la legge provvedimento» (sentenza n. 20 del 2012; in 4 seguito, sentenze n. 105 del 2012 e n. 116 del 2012).

Gli effetti incostituzionali di questa proposta seguono la modifica dello stesso comma 2 dell’art. 18 introdotta poche settimane fa con la legge di conversione del cd “DL Asset”, che, con il medesimo obiettivo di ostacolare le associazioni di protezione ambientale, impedisce ai giudici amministrativi, nel caso di ricorsi contro i calendari venatori, di avvalersi, in casi di “estrema gravità ed urgenza”, delle misure cautelari monocratiche previste dall’art. 56 del Codice del Processo Amministrativo.

Non si comprende, altresì, come si possa dichiarare di voler perseguire l’ulteriore obiettivo di tutela delle specie limitando i provvedimenti annuali alla sola determinazione del “carniere”, ovvero del numero di esemplari da abbattere e non anche alla definizione dei periodi, e alla eventuale esclusione di specie che, pure essendo ancora formalmente incluse nell’elenco di quelle cacciabili, necessitino, per varie ragioni, di beneficiare di una sospensione della caccia nei loro confronti.

Singolare è altresì la constatazione che nella presentazione dell’articolato fornita dagli estensori della pdl, non si faccia menzione di quanto indicato alla lettera c) dell’articolo 6, che dispone l’abrogazione dei commi 5 e 6 dell’articolo 18, relativi al cosiddetto silenzio venatorio. È, infatti, evidente che non vi sia alcuna ragionevole giustificazione nella cancellazione del silenzio venatorio, se non quella di fare un regalo ai cacciatori. Il mero divertimento di pochissimi verrebbe posto prima del diritto costituzionale.

La ratio del silenzio venatorio è duplice: da una parte è uno strumento di tutela della fauna selvatica, perché consente di ridurre la pressione sugli animali selvatici (incluso il disturbo sulle specie non cacciabili) durante la stagione venatoria; dall’altra è uno strumento di tutela della pubblica incolumità, consentendo ai cittadini che intendono fruire della natura in maniera diversa dalla caccia, di avere la certezza di non rischiare la propria incolumità nei giorni di silenzio (martedì e venerdì).

L’abrogazione del silenzio venatorio, con il combinato disposto dell’art. 842 del Codice civile che consente al cacciatore di accedere alle proprietà altrui senza alcuna autorizzazione, comporterebbe una vera e propria occupazione di oltre l’80% di tutte le aree naturali del Paese da parte dei cacciatori, senza soluzione di continuità, per un periodo superiore a 4 mesi.

Proprio in ragione della esigenza di tutela della pubblica incolumità, le scriventi associazioni non solo ritengono ingiustificabile l’abrogazione del silenzio venatorio ma propongono l’introduzione di ulteriori due giornate di silenzio venatorio, il sabato e la domenica, ovvero i giorni in cui, anche nel periodo invernale, si registra la maggiore presenza del 99% dei cittadini italiani non cacciatori nelle aree naturali della nazione.

Per quanto attiene alla ulteriore modifica prevista nel testo in esame, estendere a tutto il territorio nazionale la validità di abilitazioni rilasciate da singole regioni o province per la caccia di selezione agli ungulati presupporrebbe una omogeneità dei programmi e delle modalità di esame. Diversamente, sarebbe grottesco che un’abilitazione rilasciata da una regione appenninica, ove, ad esempio, non è prevista la caccia a specie alpine, come il camoscio, rendesse possibile la caccia di selezione ad una specie per la quale non sono state effettuate né lezioni, né esami.

Il combinato disposto tra gli artt. 3, 7 e 8, punta ad eliminare l’attuale obbligo per il cacciatore di scegliere la forma di caccia da praticare e a ridurre la portata dissuasiva del sistema 5 sanzionatorio vigente.

Si ritiene necessario soffermarsi sulle motivazioni di tale scelta per come espresse nella relazione introduttiva della PDL in esame. Gli estensori dichiarano che tale obbligo, pur comprensibile nella sua originaria formulazione, non appaia oggi necessario in virtù della riduzione del numero dei cacciatori e non sia utile perché ridurrebbe “la loro azione positiva nel controllo delle popolazioni della fauna”.

Tali motivazioni appaiono particolarmente deboli.

In primo luogo, se è indubbio che il numero di cacciatori abbia subito una flessione nel corso degli anni, è altrettanto vero che il numero di cittadini che frequenta le aree naturali per scopi diversi (escursionismo, birdwatching, ecc.) è parallelamente cresciuto in maniera evidente. Tale elemento induce a considerare che, soprattutto in determinati territori, se tutti i cacciatori praticassero la medesima forma di caccia vi sarebbe una eccessiva presenza degli stessi, con corrispondente limitazione nella fruibilità dei territori ed aumento dei rischi per la pubblica incolumità.

D’altro canto la necessità di scelta della forma di caccia non è limitata esclusivamente a questioni legate al numero di cacciatori ma è uno strumento fondamentale nel favorire una sorta di “specializzazione” del cacciatore nella specifica forma di caccia da praticare, con conseguente riduzione del rischio di confusione nella identificazione delle specie e degli esemplari da abbattere, aumento di conoscenza delle caratteristiche di quella specifica forma di caccia, delle regole di sicurezza da seguire, ecc.

In merito alla seconda parte della motivazione, si evidenzia una limitata conoscenza della materia da parte di chi ha redatto la PDL in esame. Dichiarare, infatti, che l’attività venatoria sia utile e positiva nel controllo delle popolazioni di fauna selvatica, riferendosi ai controllori esperti nel prelievo selettivo degli ungulati, significa confondere il concetto di caccia (attività ricreativa finalizzata al mero abbattimento di specie animali selvatiche) e il concetto di controllo (attività di interesse pubblico finalizzata a gestire il numero di particolari specie animali selvatiche, sulla base di ragioni oggettive e scientifiche, attraverso azioni che non necessariamente prevedono l’abbattimento). È importante peraltro precisare che il controllo non sostituisce ma integra il principio di cui all’art. 10 della L. 157/1992, che indica la necessità di conservare prioritariamente le capacità di contenimento naturale delle specie selvatiche esercitata ad opera dei predatori (come i lupi, gli orsi, le volpi, ecc.).

Allo stesso modo appaiono impropri i riferimenti alla incolumità pubblica, agli incidenti stradali e alla peste suina africana. È difatti notorio che alcune pratiche venatorie, utilizzate per l’abbattimento degli ungulati, come la caccia collettiva in braccata, contribuiscono direttamente ad aumentare i rischi, tanto in termini di sicurezza, quanto di diffusione di patologie e zoonosi.

Infine, si evidenzia come la sostituzione dei termini “laddove la violazione sia nuovamente commessa” con i termini “in caso di reiterazione delle violazioni” disposta alla lett. b) dell’art. 8, comporterebbe una ingiustificata limitazione temporale nella possibilità di applicare la sanzione prevista della sospensione della licenza di porto di fucile ad uso caccia, considerato che ai sensi dell’art. 8 bis della Legge n. 689/81, la reiterazione si configura se il successivo illecito amministrativo sia stato commesso entro cinque anni dal precedente. Tale modifica è grave e irragionevole e, se fosse accolta, comporterebbe una forte riduzione della efficacia dissuasiva nei confronti di chi commette violazioni di particolare rilevanza, come la caccia in un fondo chiuso, in periodo di divieto generale o in orari non consentiti. Ossia, sarebbe un palese e assurdo indebolimento del contrasto alle attività illegali e un favore a chi esercita, con l’ausilio di armi, tali 6 attività illecite.

Tale misura annullerebbe un sistema sanzionatorio che, in materia, è già fortemente debole e che ci ha portati, nel corso degli anni, all’apertura di due procedure d’infrazione e all’assunzione di un impegno formale tra l’Italia e la Commissione europea, mirato all’adeguamento del sistema che consenta, non solo l’efficacia repressiva, ma anche la dissuasione preventiva, generata da sanzioni commisurate alla reale portata dell’illecito perpetrato.

L’articolo 4 propone di introdurre tra i mezzi consentiti nella caccia di selezione agli ungulati anche gli “strumenti termici”.

Rammentiamo che la caccia di selezione agli ungulati, ai sensi dell’art. 11-quaterdecies del D.L. 203/2005, è quella basata su piani di abbattimento distinti per sesso e classi di età della popolazione di una specie.

Una termocamera, utilizzata per osservare anche gli animali, o predisposta come mezzo di puntamento montato direttamente sulla carabina, è uno strumento che riesce a rilevare, senza contatto, l’energia termica irradiata da un qualsiasi corpo e riesce a rendere visibile la distribuzione delle temperature delle aree inquadrate generando una immagine. Il sensore (o detector) della termocamera riesce a convertire questo calore (invisibile ai nostri occhi) in un impulso di tipo elettrico, convertito in un’immagine termica.

Ebbene, disposizioni internazionali recepite dell’Italia vietano l’utilizzo a fini venatori di convertitori di immagine.

Non a caso il Consiglio dei Ministri il 22/7/2020 deliberò di impugnare una legge regionale della Lombardia che consentiva l’uso di dispositivi per la visione notturna nella caccia di selezione (peraltro, per motivi ancora sconosciuti, nonostante un’interrogazione parlamentare sull’accaduto, il ricorso non è mai stato depositato presso la Corte Costituzionale dall’Avvocatura dello Stato). https://www.affariregionali.it/banche-dati/dettaglioleggeregionale/?id=44257

Se approvata, la modifica sarebbe, quindi, in aperto contrasto con le seguenti norme:

  • Direttiva 92/43/CEE “Habitat” (ad oggi attuata tramite D.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, che all’art. 10, comma 3-lett. a), da leggersi in combinato disposto con il relativo allegato F), che dispone il divieto, in ogni caso, l’utilizzo di tutti i mezzi di cattura non selettivi suscettibili di provocare localmente la scomparsa o di perturbare gravemente la tranquillità delle specie, di cui all’allegato E, e, in particolare: dispositivi di mira per tiri notturni comprendenti un amplificatore di immagini o un convertitore di immagini elettroniche;- fonti luminose artificiali; mezzi di illuminazione di bersagli.
  • La legge 5 agosto 1981, n. 503 “Ratifica ed esecuzione della convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa, con allegati, adottata a Berna il 19 settembre 1979”, che all’allegato IV, vieta durante la caccia ai mammiferi l’utilizzo di: fonti luminose artificiali; dispositivi di illuminazione bersagli; congegni di mira dotati di convertitore di immagine o di dispositivo di ingrandimento per la caccia.

 

Conclusioni

Alla luce di tutto quanto sopra argomentato, considerate le evidenti violazioni costituzionali e della normativa sovranazionale, che si determinerebbero in caso di approvazione del testo in esame, le associazioni ENPA, LAC, LAV, Legambiente, LEIDAA, LIPU, LNDC Animal Protection, OIPA, Federazione  Nazionale Pro Natura e Wwf Italia, chiedono il ritiro della Proposta di Legge AC n. 1548.