I dati del Fmi analizzati dall'Osservatorio dei conti pubblici italiani
Clima, ecco come cambierebbe l’economia italiana introducendo la carbon tax
Il prezzo del carbone aumenterebbe del 134%, quello dell’elettricità del 18% e quello della benzina del 12%, ovvero sui livelli già toccati sei anni fa. In compenso avremmo benefici ambientali, sanitari e oltre 14 miliardi di euro l’anno per compensazioni e sviluppo sostenibile
[22 Novembre 2019]
La carbon tax, ovvero una tassa sui prodotti energetici il cui consumo comporta l’emissione di biossido di carbonio (CO2) nell’atmosfera, è ancora un grande tabù per il sistema fiscale italiano: nonostante forme di carbon pricing siano già presenti in almeno 57 Stati al mondo e la carbon tax in 29 Paesi di cui 10 europei, l’Italia è sempre stata finora impermeabile alle crescenti proposte di introdurre la tassa sul carbonio (avanzate ormai anche dai sindacati Cgil, Cisl e Uil) come prezioso strumento di lotta ai cambiamenti climatici. I contrari all’ipotesi sventolano lo spauracchio delle ricadute economiche, che attraverso importanti rincari dei prodotti energetici colpirebbero pesantemente i cittadini e alcune categorie economiche, ignorando al contempo i benefici – non solo ambientali – legati alla carbon tax. Le cose stanno davvero così? L’analisi appena prodotta dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani aiuta non poco a fare chiarezza sul tema.
Mettendo in fila i più recenti studi prodotti dal Fondo monetario internazionale (Fmi) in merito alla carbon tax, l’Osservatorio sottolinea innanzitutto che i combustibili fossili continuano a essere sussidiati più che tassati: si parla di 5.200 miliardi di dollari al 2017, che si stima siano cresciuti negli ultimi due anni fino ad arrivare a 8.100 miliardi di dollari, erogati per quasi il 50% dalla Cina in sovvenzioni all’industria del carbone. A seguire troviamo Stati Uniti, Russia e India mentre «l’Italia si conferma, tra i paesi avanzati, quello più in linea con la tassazione ottimale: i tax subsidy per elettricità, benzina e gasolio sono infatti nulli, mentre sono positivi ma contenuti quelli per carbone e gas». Occorre però sottolineare che, all’atto pratico, questo significa comunque che secondo il Fmi l’Italia destina ogni anno agevolazioni fiscali per 4,99 miliardi di dollari al carbone e per 11,29 miliardi di dollari al gas, per un totale di 16,28 miliardi di dollari l’anno (per il ministero dell’Ambiente italiano i sussidi ambientalmente dannosi garantiti ai combustibili fossili arrivano invece a 16,8 miliardi di euro l’anno, 18,8 secondo Legambiente).
Si tratta di un contesto ampiamente sfavorevole alla salute dell’ambiente e di quella umana. A livello globale «se i prezzi dell’energia fossero stati pari a quelli efficienti, cioè se avessero tenuto conto di tutte le esternalità negative generate, le emissioni globali di CO2 sarebbero state del 28% più basse e le morti per inquinamento dell’aria inferiori del 46%», sottolineano al proposito dall’Osservatorio.
Cosa accadrebbe se venisse introdotta una carbon tax al livello utile per raggiungere l’obiettivo fissato dall’Accordo di Parigi sul clima, ovvero contenere il riscaldamento globale a +2°C rispetto all’era preindustriale (mentre la traiettoria attuale ci proietta a circa +3-4°C)?
Per il Fmi, questo significa una carbon tax pari a 75 dollari per tonnellata di CO2, da introdurre gradualmente entro il 2030. Considerando anche altri due scenari meno ambiziosi, con tasse a 50 e 25 dollari, i «diversi livelli di tassazione (carbon tax uniformi al 25, 50 o 75 dollari per tonnellata) ridurrebbero le emissioni di CO2, rispettivamente, di 19, 29 e 35%, nei paesi del G20». Parallelamente, secondo il Fondo «i prezzi dell’elettricità aumenterebbero in media del 45%, e quelli della benzina del 15%», ma estrapolando i dati per il nostro Paese dall’Osservatorio dettagliano che in Italia «il prezzo di carbone aumenterebbe del 134%, quello dell’elettricità del 18%. Per la benzina, l’aumento di prezzo sarebbe di circa il 10%». Un cataclisma? Non sembra: «Si arriverebbe dunque a livelli dei prezzi già registrati in passato (si pensi al biennio 2012-2013)».
È comunque vero, come sottolineano dall’Osservatorio, che «l’imposizione di una tassa sulla CO2 avrebbe grande impatto su determinate categorie di lavoratori e settori industriali, in particolare quelle legate al carbone, il cui livello di occupazione è già previsto scendere in ogni caso. L’introduzione della carbon tax velocizzerebbe questi processi, aggravando così il conflitto di breve periodo tra obiettivi occupazionali e obiettivi ambientali. Come conciliare l’introduzione di una carbon tax con queste considerazioni? La chiave di volta sta nello sfruttare in maniera efficiente ed efficace le risorse derivanti dalla carbon tax». Come in Svezia, dove la carbon tax introdotta nel 1991 a 127 dollari per tonnellata (quasi il doppio di quella proposta dal Fmi) è stata inclusa in un pacchetto di riforme volto a ridurre la pressione fiscale su lavoro e capitale, compensando il peso che la carbon tax avrebbe avuto sulle famiglie a basso e medio reddito.
Per l’Italia, una carbon tax di 75 dollari a tonnellata «genererebbe un gettito dello 0,8% del Pil nel 2030», che misurato sul Pil del 2018 si tradurrebbe in oltre 14 miliardi di euro l’anno. Soldi che non solo compenserebbero gli svantaggi legati alla carbon tax, ma darebbero nuove possibilità di sviluppo: «Il lavoro del Fondo spiega, per esempio, che una misura che compensi il 40% più povero della popolazione (piuttosto che l’intero spettro dei cittadini) e le categorie di lavoratori più vulnerabili lascerebbe comunque tre quarti del gettito per altri interventi come investimenti o tagli alle tasse sul lavoro».