Covid-19, perché lo Stato possa sostenere il rilancio economico serve meno burocrazia
Valotti (Utilitalia): «Gli effetti della pandemia esigono la dichiarazione dello “stato di emergenza” della pubblica amministrazione»
[17 Aprile 2020]
Mentre stiamo affrontando una delle più drammatiche emergenze sanitarie del Paese, cresce la preoccupazione per gli sconvolgimenti che la pandemia potrebbe indurre nel sistema economico e sociale. Crisi delle imprese, disoccupazione, crollo degli investimenti, contrazione della domanda, depauperamento del valore dei patrimoni mobiliari e immobiliari, aumento della povertà, restrizione del perimetro del welfare, sono solo alcune delle minacce che si prospettano all’orizzonte.
Ecco allora che ciò che non è riuscito a secoli di dibattiti in campo politico ed economico pare stia riuscendo ad una delle più grandi crisi mondiali.
Economisti, politici e autorevoli commentatori sembrano in questi giorni superare la storica contrapposizione tra la visione di uno Stato “leggero” ridotto al minimo nelle funzioni, promotore della libera iniziativa e dei meccanismi di mercato e la concezione di uno Stato “interventista”, responsabile di presidiare direttamente funzioni strategiche per le nazioni e di assicurare il soddisfacimento dei bisogni essenziali delle popolazioni.
Ora tutti insieme invocano un intervento pubblico nell’economia, anche a costo di incrementi significativi del debito pubblico, per molti anni considerato un tabù invalicabile.
Sgravi fiscali, sostegni alle imprese, investimenti pubblici, aiuti alle famiglie ed ecco che improvvisamente si ripongono nello Stato, a lungo additato come un freno o una zavorra, tutte le aspettative per una ripresa dell’economia.
L’ultima manovra del Governo Conte va esattamente in questa direzione: garanzie per l’accesso al credito, sostegno alla liquidità e all’internazionalizzazione, rafforzamento della disciplina del Golden Power a difesa dell’industria nazionale, sospensione del pagamento di imposte e contributi.
Al tempo stesso, tuttavia, pochi si stanno chiedendo: di quale Stato parliamo? E, soprattutto, quale Stato ci serve?
Ovvero, c’è un aspetto dai più sottovalutato: affinché lo Stato possa effettivamente esercitare la funzione da tutti evocata a sostegno del rilancio dell’economia, serve una profonda riforma del modo di operare della pubblica amministrazione.
Ingenti risorse pubbliche verranno a breve allocate per il superamento della crisi. Vanno spese in fretta e, soprattutto vanno spese bene. Difficilmente ciò potrà accadere nel dedalo delle norme, nell’incerta attribuzione di poteri e responsabilità, nel soffocante sistema dei controlli formali, nella barocca articolazione delle procedure, nelle pieghe della lentezza operativa e delle inefficienze che da troppo caratterizzano il settore pubblico.
Per assicurare la ripresa ci vorrà un booster straordinario e lo Stato, sia a livello centrale che locale, assumerà un ruolo decisivo, nel bene e nel male.
Impossibile però affrontare questa fase con ampie riforme della pubblica amministrazione, dai tempi incompatibili con le necessità immediate. Così come di corto respiro sarebbero singoli provvedimenti su specifiche norme e procedure.
Forse è allora il tempo di dichiarare lo “stato di emergenza” della pubblica amministrazione. Parlamento e Governo dovrebbero avere il coraggio e la determinazione nel disegnare una sorta di “zona franca temporale” della burocrazia. Per un tempo definito, ipotizziamo per un anno, si semplifichino drammaticamente le procedure di spesa, si dimezzino i tempi necessari per autorizzare nuovi investimenti, si accettino minori formalismi negli appalti e negli acquisti pubblici, si riveda la disciplina del danno erariale per porre chi opera negli enti nelle condizioni di fare concretamente piuttosto che di difendersi dalle responsabilità, si prevedano figure dotate dell’autonomia necessaria per decidere senza esasperanti mediazioni dentro la propria amministrazione e con altre amministrazioni, si premino finalmente i risultati e non il semplice rispetto delle norme, si metta in atto una trasparenza vera sull’uso delle risorse. Insomma, per una volta, prevalga la sostanza sulla forma.
Infatti, se nelle normali fasi di vita delle democrazie è fondamentale il ruolo dello “Stato garante”, in questa fase del tutto eccezionale serve probabilmente uno “Stato imprenditore”, orientato al fare, e bene, le cose che servono.
Tutto questo potrebbe esporre a rischi di comportamenti devianti e opportunistici? Probabilmente sì. Tuttavia, questi possono da un lato essere contrastati da un rafforzamento significativo del sistema dei controlli sull’attuazione dei progetti e degli investimenti, oltre che da un inasprimento delle sanzioni per chi sgarra. Ma, dall’altro, questi rischi sarebbero forse minori di quelli di uno “Stato immobilista”, prigioniero dei propri vincoli ed incapace di guidare la ripresa.
Se in situazioni di emergenza si riesce ad aprire un ospedale in due settimane, perché non imparare da queste esperienze e farle diventare un modo di operare della pubblica amministrazione?
Un famoso studioso delle burocrazie, Michel Crozier, teorizzava anni fa che la pubblica amministrazione fosse incapace di rinnovarsi spontaneamente, essendo in grado di cambiare solo “per trauma o per crisi”.
Riuscirà quindi il Covid-19 a fare ciò che generazioni di Governi e di riforme non sono mai riusciti a fare? Ce lo auguriamo perché, oltre a risolvere nel breve molti problemi del Paese, tutto questo lascerebbe un patrimonio di inestimabile valore per la competitività delle imprese, il benessere dei cittadini ed il futuro delle nuove generazioni.