In Africa 200 società stanno esplorando o sviluppando nuove riserve di combustibili fossili

ReCommon: «L'aumento previsto da Eni negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili farà sì che le emissioni derivanti siano addirittura il doppio rispetto a quelle registrate all'anno in Italia»

[15 Novembre 2022]

A Sharm el-Sheik è in corso la Cop27 per aggiornare l’impegno globale contro la crisi climatica: la conferenza Onu si chiuderà questa settimana, ma il rapporto Chi finanzia l’espansione dell’industria fossile in Africa? – presentato oggi a Sharm da ReCommon, Urgewald, Stop Eacop, Oilwatch Africa e da altre 34 ong africane – offre già un quadro piuttosto eloquente.

Il rapporto identifica infatti ben 200 società che stanno esplorando o sviluppando nuove riserve di combustibili fossili, e che stanno anche sviluppando nuove infrastrutture fossili come terminal di gas naturale liquefatto (Gnl), gasdotti o centrali elettriche a gas e a carbone in Africa.

«Un continente martoriato dalla spregiudicatezza dei governi e delle lobby industriali e finanziarie, a cui si aggiunge la corsa al gas africano come risposta alla crisi energetica che sta interessando l’Europa. Uno scenario che non promette bene e che sicuramente non troverà punti di svolta nell’ambiguo vertice sul clima di Sharm el-Sheikh», commenta Daniela Finamore di ReCommon, evidenziando al contempo che la principale multinazionale italiana, Eni, e le due banche di sistema, Intesa Sanpaolo e UniCredit, svolgono un ruolo di primissimo piano.

Tra i 14 Paesi africani dove il Cane a sei zampe è presente ci sono Egitto, Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, ma la sua presenza è in fortissima crescita anche in Angola e Mozambico. Non a caso nel 2021 Eni è risultata la seconda multinazionale estrattiva per attività in Africa: il 59% della sua produzione globale arriva da lì. E crescerà ancora.

«L’aumento previsto da Eni negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili, frutto anche di un investimento di 1,1 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2022, farà sì che le emissioni derivanti siano addirittura il doppio rispetto a quelle registrate all’anno in Italia», evidenzia ReCommon.

Già da tempo la multinazionale italiana emette più gas serra dell’intera Italia, come evidenziano da Greenpeace: «Nel 2018 Eni ha infatti emesso complessivamente 537 milioni di tonnellate di CO2, praticamente più dell’Italia, che segnava 428 (inclusa la quota Eni di emissioni prodotte in Italia)».

Ma gli investimenti oil&gas in corso in Africa sarebbero difficilmente realizzabili senza il sostegno finanziario di fondi e banche private. Dati alla mano, aggiornati a luglio 2022, oltre 5mila investitori istituzionali avevano azioni e obbligazioni delle compagnie fossili attive in Africa, per un ammontare di 109 miliardi di dollari.

«Ben 12 miliardi – snocciola ReCommon – fanno capo al fondo di investimento statunitense BlackRock, che a Eni “dedica” 958 milioni del suo ricco portafoglio. Tra gli istituti di credito sono ancora due soggetti a stelle e strisce a dominare: Citigroup (5,591 miliardi) e JPMorgan Chase (5,093 miliardi), seguiti dalla francese Bnp Paribas. Ma la finanza privata italiana non sta certo a guardare, piazzandosi al settimo posto a livello globale per finanziamenti fossili in Africa. In classifica sono ben presenti infatti i due campioni del mondo bancario italiano, UniCredit (2,163 miliardi) e Intesa Sanpaolo (1,491 miliardi), in prima fila nel sostenere i progetti oil&gas di Eni nel continente africano».

Eppure poco più di un anno fa anche l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), tracciando il percorso globale per arrivare ad azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050 – e rispettare così l’Accordo di Parigi, contenendo il surriscaldamento del clima a +1,5°C – ha confermato che «oltre ai progetti già avviati nel 2021, nel nostro percorso non ci sono approvazioni per lo sviluppo di nuovi giacimenti di gas e di petrolio e non sono necessarie nuove miniere di carbone o ampliamenti delle miniere già in uso». Ovvero, tutti i combustibili fossili contenuti in nuovi giacimenti devono restare dove sono, nel sottosuolo.