Sulla distribuzione delle risorse poche differenze rispetto al Piano Conte

Nel Pnrr di Draghi la “rivoluzione verde” resta appesa al filo delle riforme

«La transizione sta avvenendo troppo lentamente, principalmente a causa delle enormi difficoltà burocratiche ed autorizzative che riguardano in generale le infrastrutture in Italia, ma che in questo contesto hanno frenato il pieno sviluppo di impianti rinnovabili o di trattamento dei rifiuti»

[26 Aprile 2021]

Dopo due mesi persi a causa della crisi di Governo e la successiva, parziale riscrittura del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr a firma Mario Draghi viene presentato oggi per la prima volta alla Camere (che finora hanno discusso di quello elaborato dall’esecutivo Conte II). Non ci resterà molto: entro il 30 aprile dovrà essere inviato a Bruxelles, dunque l’esame del Parlamento sarà poco più che formale.

Chi si aspettava fuochi d’artificio sotto il profilo della transizione ecologica resterà deluso. Nonostante il ministro Cingolani avesse pronosticato «80 miliardi di euro in 5 anni in progetti verdi che riguardino una accelerazione della de-carbonizzazione», l’effettiva distribuzione delle risorse nel Pnrr è minore e sostanzialmente in linea con quella prevista da Conte.

Il vecchio Piano allocava infatti 68,9 miliardi di euro alla missione “rivoluzione verde e transizione ecologica” contando anche le risorse provenienti da React-Eu, mentre il nuovo arriva a 69,96 (ma 9,32 miliardi di euro provengono da risorse nazionali in deficit); anche sulla missione “infrastrutture per una mobilità sostenibile” Conte puntava complessivamente 31,98 miliardi di euro, Draghi 31,46.

Su altri, importanti e per certi versi collaterali capitoli di spesa la delusione per il “governo dei competenti” è ancora più cocente, come nel caso degli investimenti in ricerca che erano stati ampiamente perorati attraverso il cosiddetto Piano Amaldi: «Col Piano Amaldi chiedevamo 20 miliardi di euro in 6 anni – ricorda il fisico del Cern Federico Ronchetti – Poi l’ex ministro Manfredi ne ha promessi 15. Alla ministra Messa ne sono stati chiesti 12. Quanti ce ne danno? 4,5 e nemmeno strutturali».

Più in generale, è lo stesso Governo a presentare l’ossatura del nuovo Pnrr. Complessivamente è composto da 191,5 miliardi di euro di risorse europee Ngeu (divise in 68,9 mld di euro in sovvenzioni e 122,6 mld in prestiti) che dovranno essere spese entro il 2026, cui si sommano 13 mld dal programma React-Eu (da spendersi entro il 2023) e 30,64 mld provenienti da un Fondo complementare, finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio approvato nel Cdm del 15 aprile: in totale, 235,14 miliardi di euro.

Secondo le stime del Governo «il 27% del Piano è dedicato alla digitalizzazione, il 40% agli investimenti per il contrasto al cambiamento climatico, e più del 10% alla coesione sociale», mentre sotto il profilo economico si attende che «nel 2026, l’anno di conclusione del Piano, il prodotto interno lordo sarà di 3,6 punti percentuali più alto rispetto all’andamento tendenziale e l’occupazione sarà maggiore di quasi 3 punti percentuali».

Quanto l’Italia per allora sarà anche più sostenibile il Piano non lo dice, ma è evidente che le lacune nel Pnrr non mancano. Qualche esempio?

«Diciamolo, quanto previsto dal Pnrr per le infrastrutture di mobilità urbana basterebbe, forse, per Roma. Undici km di metro e 85 di tram non sono l’accelerazione che ci si aspettava dal ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili», osserva il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini: la “cura del ferro” del Pnrr si riassume infatti in soli 240 km di rete attrezzata per le infrastrutture del trasporto rapido di massa suddivise in metro (11 km), tram (85 km), filovie (120 km), funivie (15 km).

Riguardo invece l’efficienza energetica, sempre da Legambiente (e Fillea-Cgil) arriva la richiesta di proroga del Superbonus 110% al 2025, mentre nell’attuale versione del Pnrr resta al 31 dicembre 2022. Sulle ampie carenze per quanto riguarda il contrasto al dissesto idrogeologico o la tutela di biodiversità e aree protette si soffermano invece associazioni ambientaliste come Wwf e Lipu.

Ma anche per quanto riguarda declinazioni più “industriali” dello sviluppo sostenibile, come nel caso dell’economia circolare o nella realizzazione di impianti per produrre energia da fonti rinnovabili, la distribuzione delle risorse prevista dal Pnrr di Draghi non segna sostanziali passi in avanti rispetto a quella di Conte.

Ad esempio, alle bonifiche dei siti orfani si destinano 500 milioni di euro, contro un fabbisogno stimato per la bonifica dei Sin nazionali pari a 10 miliardi di euro; la voce “realizzazione di nuovi impianti di gestione rifiuti e ammodernamento di impianti esistenti” prevede investimenti da 1,5 miliardi di euro (gli stessi di Conte) contro 10 stimati come necessari e soprattutto l’analisi sembra soffermarsi solo sulla gestione dei rifiuti urbani (ne generiamo 30,2 mln di ton/anno, mentre di rifiuti speciali 143,5 mln di ton/anno); per “incrementare la quota di energia prodotta da fonti di energia rinnovabile” il Pnrr di Draghi destina 5,9 mld di euro, cui se ne aggiunge 1 per “sviluppare una leadership internazionale industriale e di ricerca e sviluppo” nella filiera di rinnovabili e batterie, mentre Conte su temi similari ne destinava poco meno (5,76 mld).

A poter fare la differenza, tra il Pnrr di Conte e quello di Draghi, in particolare per quanto riguarda “rivoluzione verde e transizione ecologica”, è il pacchetto di riforme che il nuovo Piano dettaglia assai più del vecchio. Ma qui tutto naturalmente dipenderà dalla concreta declinazione e attuazione delle riforme previste: servirà tempo per misurarne gli effetti e per valutarli.

Per quanto riguarda l’economia circolare, ad esempio, il Pnrr afferma che «è in corso di revisione e aggiornamento la strategia nazionale esistente (2017)», in realtà una bozza, e la nuova sarà pronta «entro giugno 2022»; sarà inoltre completato il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti avviato dal precedente Governo e verrà offerto supporto tecnico alle autorità locali per arrivare alla messa a terra degli investimenti.

«Uno dei principali ostacoli alla costruzione di nuovi impianti di trattamento dei rifiuti – spiega nel merito il Pnrr – è la durata delle procedure di autorizzazione e delle gare d’appalto. I ritardi sono spesso dovuti alla mancanza di competenze tecniche e amministrative del personale di regioni, province e comuni. Il ministero per la Transizione ecologica, ministero per lo Sviluppo economico e altri assicureranno il supporto tecnico agli Enti locali (Regioni, Province, Comuni) attraverso società interne».

Problemi simili, in realtà, frenano altri comparti come quello delle rinnovabili: «Secondo alcune stime – riporta lo stesso Pnrr – considerando l’attuale tasso di rilascio dei titoli autorizzativi per la costruzione ed esercizio di impianti rinnovabili, sarebbero necessari 24 anni per raggiungere i target Paese (con riferimento alla produzione di energia da fonte eolica) e ben 100 anni per il raggiungimento dei target di fotovoltaico».

In sostanza, le rinnovabili come l’economia circolare aspettano la transizione burocratica per poter attuare davvero la transizione ecologica. «La transizione – conferma il Pnrr – sta avvenendo troppo lentamente, principalmente a causa delle enormi difficoltà burocratiche ed autorizzative che riguardano in generale le infrastrutture in Italia, ma che in questo contesto hanno frenato il pieno sviluppo di impianti rinnovabili o di trattamento dei rifiuti (a titolo di esempio, mentre nelle ultime aste rinnovabili in Spagna l’offerta ha superato la domanda di 3 volte, in Italia meno del 25% della capacità è stata assegnata)».

Ecco perché il Pnrr mette nero su bianco che è «necessaria una profonda semplificazione delle norme in materia di procedimenti in materia ambientale e, in particolare, delle disposizioni concernenti la valutazione di impatto ambientale (“Via”). Le norme vigenti prevedono procedure di durata troppo lunga e ostacolano la realizzazione di infrastrutture e di altri interventi sul territorio».

La “rivoluzione verde” auspicata per il Paese passa dunque da una profonda accelerazione su tutto l’iter di permitting – non solo della Via, dunque – che sappia preservare le tutele ambientali senza minare la messa a terra degli investimenti, oggi frenati oltre che dalla burocrazia dal dilagare di sindromi Nimby e Nimto di ogni tipo. Ma da decenni l’Italia, come noto purtroppo, sembra allergica a riforme di questo tipo e non solo. E il fatto che (momentaneamente) il premier alla guida del Paese sia Mario Draghi non significa di per sé una garanzia di successo.