Una ricerca sostenuta da Nasa, Wwf e National natural science foundation of China
Non è la Cina il maggior responsabile del cambiamento climatico, ma i consumi occidentali
Arriva sui nostri mercati buona parte dei beni prodotti dai grandi inquinatori del pianeta, che si tengono i costi ambientali al posto nostro
[22 Settembre 2016]
L’entrata in vigore è rimandata ancora a data da destinarsi, ma ieri l’Accordo sul clima di Parigi ha fatto passai avanti all’Onu, incassando 31 ratifiche da altrettanti Paesi in un giorno solo. In attesa dell’Europa, la parte del leone la fanno ancora Usa e Cina, che insieme emettono il 38% dei gas serra globali. Dopotutto spetta proprio alla Cina, moderna fabbrica del mondo, il ruolo di maggiore inquinatore globale, insieme a quello di primo responsabile del cambiamento climatico. Giusto? Dipende. L’aria irrespirabile che ammorba le metropoli orientali è ormai elevata a simbolo, ed è sempre dalla Cina che arriva oggi il 24% delle emissioni di gas serra mondiali. Una fetta rilevante di questi gravi impatti ambientali è imputabile però ai consumi dei cittadini dell’Europa occidentale e degli Usa, a cui gran parte dei prodotti cinesi vengono venduti. Varie ricerche l’avevano già suggerito (all’economista Giovanni Marin il merito di spiegarlo sulle nostre pagine), ora per la prima volta uno studio – condotta dalla McGill University e sostenuto tra gli altri da Nasa, Wwf e National natural science foundation of China – dettaglia l’influenza dell’inquinamento cinese sul clima globale.
Lo studio, pubblicato su Nature Geoscience, si concentra sugli effetti del commercio internazionale sui cambiamenti climatici, analizzando in particolare quelli degli aerosol (particelle solide o liquide in sospensione nell’aria) inquinanti. Rispetto ai gas ad effetto serra come l’anidride carbonica, gli aerosol emessi attraverso la produzione industriale o la combustione di energie fossili di solito restano nell’atmosfera per periodi relativamente brevi – pochi giorni o settimane. Come risultato, la loro influenza sul clima è solitamente più forte nella regione in cui vengono emessi, attraverso un fenomeno chiamato “forcing radiativo”. Ovvero, a seconda della loro tipologia gli aerosol assorbono o disperdono la radiazione solare, contribuendo così al cambiamento climatico. Alcuni, come i solfati, hanno effetti di raffreddamento; altri, come il temibile black carbon – assai dannoso per la salute anche quando inalato – di riscaldamento. Effetti globali anche se concentrati prevalentemente nell’area di emissione, come specificato dai ricercatori: peccato i beni la cui produzione è responsabile di tali emissioni siano poi consumati altrove, da noi occidentali. Un classico caso di dumping ambientale. C’è chi si tiene i beni industriali, magari lamentandosi dell’invasione di prodotti cinesi, senza il rispettivo inquinamento ambientale. Che non sparisce, è solo scaricato altrove.
«Il nostro studio ha rivelato un forte e ancora poco conosciuto legame tra il consumo, il commercio e le conseguenze ambientali e climatiche – spiega Yi Huang, scienziato atmosferico che ha co-condotto la ricerca – Anche se l’inquinamento globale è largamente generato nei paesi in via di sviluppo, è la domanda estera che guida gran parte della produzione di beni, e dunque dell’inquinamento associato».
Nonostante le politiche sempre più stringenti valide all’interno dei paesi sviluppati, le emissioni globali di molti aerosol inquinanti sono aumentate negli ultimi anni. Dunque, che fare? Oltre alla necessaria (ma ancora assai lontana) opera di riduzione dei consumi superflui, i ricercatori sottolineano la necessità di domandarsi «quale sia il modo migliore per distribuire la produzione di merci in modo che l’inquinamento e il forcing climatico globali siano ridotti al minimo». Un quesito importante che «deve ancora essere affrontato», anche se alcuni utilissimi strumenti operativi potrebbero già essere messi in atto: rafforzare i programmi di trasferimento tecnologico già previsti dal protocollo di Kyoto, oppure l’introduzione da parte dei leader politici nei paesi in via di sviluppo di normative ambientali più severe (i cui costi sarebbero poi trasferiti sul consumatore finale, ovvero noi occidentali). Operazione quest’ultima che i governi dei paesi sviluppati dovrebbero sollecitare per primi, anche pensando a restrizioni di mercato se necessario.
Di fronte a tali considerazioni ha poco senso sostenere la posizione per cui l’Ue, emettendo “solo” il 12% circa delle emissioni di gas serra globali, ha ormai poche responsabilità dirette nel cambiamento climatico (senza dimenticare che è proprio il nostro continente, stimando il totale dei gas climalteranti emessi nell’atmosfera del 1850 a oggi, il maggior responsabile del riscaldamento globale). Al contrario, è solo mantenendo la posizione di leader e pioniere nella necessaria transizione ecologica che l’Europa potrà cercare di ritagliarsi un ruolo nel mondo di domani, in cui l’asse del potere ruoterà sempre di più sulle sponde dell’oceano Pacifico.