Pubblicato sulla rivista Nature climate change col contributo di ricercatori italiani
Nuovo studio conferma: non c’è politica climatica che tenga senza sostenibilità sociale
«Mitigare i cambiamenti climatici non è (e non può essere) l’unico obiettivo delle politiche di decarbonizzazione»
[12 Febbraio 2021]
Quelli bravi parlerebbero di una politica win-win come punto di riferimento necessario per portare avanti la lotta contro il cambiamento climatico e quindi in favore della decarbonizzazione dell’economia. Perché se questa transizione, che è l’unica via per salvare il Pianeta (o meglio noi stessi) non viene accompagnata da conseguenze positive sul piano sociale, ma solo negative per via ad esempio degli aumenti di prezzi che seguono ai migliori standard ambientali che vengono richiesti, la guerra è già bella che persa.
Sul tema, attualissimo e cogente, è uscito un nuovo studio, condotto nel contesto del progetto europeo Innopaths da Cristina Peñasco dell’Università di Cambridge, da Laura Diaz Anadon in qualità di direttrice del Cambridge’s centre for environment, energy and natural resource governance (C-eenrg) e da Elena Verdolini (Cmcc – Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici e Università degli Studi di Brescia). La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature climate change, ed affronta problemi noti nell’ambio dell’economia ecologica: «Ad esempio – ricordano dal Cmcc – le tariffe feed-in pagano i produttori di energia elettrica rinnovabile al di sopra delle tariffe di mercato. Ma i costi associati a questo intervento sono spesso “passati” ai consumatori in quanto risultano in un aumento generalizzato dei prezzi dell’energia».
Per questo è indispensabile aggiustare il tiro: un esempio è la gestione del gettito di un’imposta ambientale, come la carbon tax, da potersi impiegare per ristorare le parti sociali più colpite, o per ridurre le tasse sul lavoro, o in ogni caso per finanziare interventi contro disuguaglianza e povertà.
Come sottolinea infatti Cristina Peñasco «mitigare i cambiamenti climatici non è (e non può essere) l’unico obiettivo delle politiche di decarbonizzazione», perché «se le politiche a basse emissioni di carbonio non sono eque, efficienti e non stimolano la competitività, sarà difficile ottenere il sostegno pubblico necessario per la loro messa in atto. Questo potrebbe portare a ulteriori ritardi nel processo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, con conseguenze disastrose per il pianeta, le nostre economie e le generazioni future».
Al contempo, tutto ciò naturalmente non significa che interventi contro la crisi climatica rischiano di portare a conseguenze sociali inique, mentre senza questi interventi le cose andrebbero meglio. Semmai è il contrario: giova ricordare ciò che già nel 2019 è emerso durante l’iniziativa Italy 4 Climate, lanciata dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, ovvero che anche in Italia senza una rapida inversione di rotta entro la metà del secolo si perderanno 130 miliardi di euro l’anno in Pil, con un aumento della disuguaglianza regionale nella distribuzione della ricchezza pari al 60%. La disuguaglianza peraltro è invertita nelle responsabilità, giacché sono i più ricchi che contribuiscono maggiormente al cambiamento climatico al contrario dei più poveri, che in compenso ne pagano le conseguenze più salate.
Lo studio si sofferma quindi su dieci “strumenti” politici che includono forme di investimento (ad esempio finanziamenti mirati alla ricerca e allo sviluppo), incentivi finanziari (sussidi, tasse e gli appalti pubblici verdi – Green public procurement), interventi di mercato (permessi di emissione e certificati negoziabili per energia pulita o risparmiata) e standard di efficienza (come quelli per gli edifici).
Tra i numerosi risultati della ricerca emerge che, per la maggior parte degli strumenti analizzati, le “conseguenze distributive”(ovvero l’equità della distribuzione dei costi e benefici associati all’intervento di politica climatica) sono molto più spesso negative che positive o nulle. Questo è particolarmente vero per le piccole imprese e i consumatori meno abbienti.
«Le piccole imprese e le famiglie di medie dimensioni hanno meno capacità di assorbire gli aumenti dei costi energetici – spiega Laura Diaz Anadon – Alcune delle politiche di investimento e normative hanno reso più difficile per le piccole e medie imprese cogliere nuove opportunità o adattarsi ai cambiamenti. Se le politiche non sono ben progettate e le famiglie e le imprese vulnerabili ne fanno esperienza negativa, potrebbe aumentare la resistenza pubblica al cambiamento, un grosso ostacolo al raggiungimento della neutralità carbonica».
Come ha osservato su queste colonne anche l’economista Giovanni Marin «le fasce ‘deboli’ non hanno risorse sufficienti per investimenti ‘ambientali’ (ad esempio la coibentazione delle abitazioni per migliorare l’efficienza energetica o l’acquisto di un’auto ibrida o elettrica) il cui ritorno economico privato si concretizzerà solo in futuro».
Quindi per affrontare la sfida dei cambiamenti climatici e per sposare fino in fondo la green economy, questa deve portare avanti contemporaneamente le necessità ambientali e sociali, redistribuendo le risorse secondo criteri di equità: lo sviluppo sostenibile si regge infatti solo su queste tre gambe – sostenibilità ambientale, sociale ed economica – e basta ignorarne una per far saltare il tavolo.