Olio di palma, zucchero e biocarburanti, in Tanzania il land grabbing è sponsorizzato dal G7
L’agrobusiness finanziato dai Paesi ricchi fa paura ai contadini della Tanzania
[20 Maggio 2015]
L’Integrated Oil Palm Project, che verrà realizzato nella regione della Ruvu Basin, nella Coast Region, a 40 Km da Dar es Salaam, in Tanzania, prevede l’acquisto di terreni per 199.8 miliardi di scellini (111 milioni dollari) ma secondo il portavoce della National Development Corporation (Ndc), Abel Ngapemba, per ora sono stati acquisiti “solo” 6.000 ettari e deve essere ancora avviato il processo di trasferire la loro proprietà all’investitore. Ngapemba ha spiegato che «Il progetto ha bisogno di almeno 10.000 ettari di terreno».
L’Integrated Oil Palm Project nel bacino del fiume Kivu prevede piantagioni di palma da olio e la produzione di olio di palma nei villaggi di Kimala Misale e Dutumi, nei distretti di Kisarawe e Kibaha, e secondo la Ndc dovrebbe produrre 7.250 litri per ettaro all’anno di olio di palma e di circa 10 MW di energia elettrica dalle biomasse da olio di palma, una arte della quale verrò utilizzata nella gestione del progetto, mentre il resto verrà venduto alla rete elettrica della Tanzania.
La Ndc vuole attuare il progetto in collaborazione con il settore privato e dice di voler integrare i piccoli coltivatori che resteranno senza terra «in una forma di agricoltura a contratto».
Nel 2013 Ndc of Tanzania ha firmato un accordo con Nava Bharat Pte Ltd di Singapore (Nbs) per realizzare una piantagione palma da olio ed impianti di trasformazione, una joint venture che è stata valutata 111 milioni dollari. In realtà la multinazionale di Singapore ha l’80% delle quote e gestirà sia le piantagioni che la fabbrica di olio di palma.
Il contratto è frutto di un protocollo d’intesa firmato nel 2011 e che stabilisce che Ndc e Nava Bharat Pte lavoreranno insieme per realizzare progetti agricoli su vasta scala in Tanzania.
E’ proprio questo tipo di progetti che sta seminando il panico tra i piccoli agricoltori della Tanzania che temono di essere sfrattati dalle loro terre per far posto all’agrobusiness. Infatti un’altra minaccia viene da nuova iniziativa sostenuta dal G7 (del quale fa parte anche l’Italia) e lanciata da una compagnia svedese attraverso la partnership pubblico-privato public-private Southern Agricultural Growth Corridor of Tanzania (Sagcot) che dovrebbe espropriare i terreni di circa 1.300 famiglie per realizzare una piantagione di canna da zucchero. Si tratta di uno dei principali progetti della New Alliance for Food Security and Nutrition, l’iniziativa del G7 per aumentare gli investimenti agricoli in Africa e che finirà per sfrattare i piccoli agricoltori dalle loro terre ancestrali. Diversi contadini dicono di essere già stati espropriati senza ricevere nessun indennizzo e di non sapere dove verranno trasferiti.
La “piantagione del G7″ sorgerà a Razaba, un villaggio remoto a diverse miglia dalla città di Bagamoyo , a nord di Dar es Salaam, che qualche anno fa ha cominciato ad attirare l’attenzione delle multinazionali che ora gli abitanti accusano di essersi impossessate delle loro terre con la forza e l’evidente complicità del governo. La piantagione di canna da zucchero alla fine si estenderà su circa 180 km2 e servirà per la produzione di zucchero per i biocarburanti.
ActionAid ha lanciato una petizione sollecitando l’amministrazione di Barack Obama non sostenere piàù la New Alliance for Food Security and Nutrition ed a concentrare i finanziamenti Usa per sostenere gli agricoltori poveri in Africa, piuttosto che all’industri agroalimentare, ma la cosa riguarda anche il governo italiano, visto che l’Italia fa arte del G7. Elias Mtinda, di Action Aid Tanzania, spiega: «Non stiamo dicendo che il progetto è il male, ma ci sono questioni che devono essere affrontate. La nostra raccomandazione è bisogna sospendere il progetto e condurre consultazioni vere con le comunità locali e altri stakeholders». Ma la struttura della New Alliance è proprio quella di una serie di accordi che privilegiano gli investitori internazionali – e le multinazionali in particolare – perché “sviluppino” l’agricoltura in Africa.
Hans Rudolf Herren, vincitore del World Food Prize 1995 e presidente di Biovision Foundation, un’Ong svizzera per lo sviluppo sostenibile, dice che «E’ particolarmente preoccupante che i governi africani siano tenuti a dare incentivi all’agro-alimentare, ampliando l’accesso delle grandi imprese ai semi, alla terra, all’acqua, al lavoro ed ai dei mercati, spesso a scapito delle comunità locali. Il G7 dovrebbe concentrarsi sul miglioramento dell’accesso dei piccoli agricoltori alle pratiche agricole sostenibili, come il biologico e l’gricoltura ecologica, e sostenere le imprese e le filiere di valorizzazione locali che includono direttamente il beneficio per i piccoli agricoltori». Herren ricorda che il 2014 è stato dichiarato dalla Fao International Year of the Family Farming proprio per sottolineare l’importanza delle piccole imprese agricole a conduzione familiare che producono più cibo per unità di superficie delle fattorie industriali e aggiunge: «La logica suggerirebbe chiaramente di fare uno sforzo eccezionale per sostenere le famiglie e i piccoli agricoltori. I leader del G7 dovrebbero rivedere la New Alliance si incontreranno in Germania il prossimo giugno». Honest Brokers, funzionari della Tanzania e investitori private concordano nel dire che la partnership voluta dal G7 si è trasformata in un gigantesco land grabbing delle terre delle comunità locali, ma Geoffrey Kirenga, chief executive officer di Sagcot ribatte che il progetto fa parte di «Un processo di homegrown, inteso ad agevolare maggiori investimenti nel settore agricolo. Chiediamo noi stessi ad Honest Brokers di facilitare le discussioni tra il governo e il settore privato per esaminare questioni come effettuare cambiamenti politici, parlare con il settore privato, parlare ai contadini e identificare le aree chiave in cui sono necessari cambiamenti e facilitare il dialogo su come risolvere i problemi».
Anche Per Carstedt, presidente esecutivo di EcoEnergy Tanzania, che sta realizzando il contestato progetto, ha risposto che «Punta a generare maggiori investimenti per lo sviluppo agricolo, aumentare l’innovazione, ridurre la povertà e la fame locale. Di solito dico che il progetto si articola in tre aree: n grande progetto di agricoltura, un grande progetto di sviluppo industriale ed un grande progetto sociale e per lo sviluppo della comunità. Di gran lunga il più complesso è il terzo, perché stiamo interagendo con decine di migliaia di persone e stiamo assumendo persone che attualmente sono agricoltori di sussistenza cercando trasformare molti di loro in agricoltori commerciali, cercando di insegnare loro a diventare operai, conducenti dei trattori o gestori di sistemi di irrigazione, e così via».
Ma i contadini non sembrano disposti a cedere in “affitto” le loro terre per i prossimi 99 anni per una miseria che a volte nemmeno viene pagata e gli attivisti e i leader delle comunità locali dicono che il processo di acquisizione di terreni non è stato assolutamente trasparente ed hanno chiesto al governo di sospendere tutto. Shaaban Kasanula, presidente della comunità di villaggio e Razaba, ha detto che le autorità non hanno coinvolto la popolazione locale: «Siamo stati completamente esclusi da tutto il processo e le nostre grida sono cadute nel vuoto. La popolazione locale non vuole sentir parlare del progetto. Esorto le autorità tanzaniane e le agenzie di donatori a riconsiderare il progetto».
I piccoli agricoltori della Tanzania sono appoggiati dalle Ong per diritti umani che chiedono di sostituire la Sagcot con finanziamenti destinati ai produttori di cibo su piccola scala e per incrementare l’agricoltura sostenibile. Nel settembre 2014 Oxfam aveva condannato le public-private partnerships che piacciono tanto a G7 e governi africani dicendo che i loro rischi «Ricadono sui più vulnerabili».
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