Paradossi dell’acqua “pubblica”: da soli i Comuni non investono nel servizio idrico
Gli investimenti delle gestioni “in economia” si attestano a 8 euro procapite l’anno, contro i 46 rilevati per quelle industriali
[17 Giugno 2021]
A due anni dall’ultimo report, la Fondazione Utilitatis è tornata ad aggiornare il Blue book – ovvero la monografia coi dati del Servizio idrico integrato – presentandolo al Festival dell’acqua organizzato come sempre da Utilitalia.
Un appuntamento che cade in contemporanea alla Giornata mondiale contro la desertificazione (un rischio che colpisce già il 20% del territorio italiano) e che mostra in dettaglio quanto ancora ci sia da fare per tutelare l’oro blu dalla crisi climatica in corso.
Uno dei principali nodi resta l’ammontare degli investimenti nel Servizio idrico integrato, che pure stanno crescendo costantemente dal 2012, quando il trasferimento delle competenze di regolazione e controllo ad un’authority indipendente come l’Arera ha permesso di invertire la rotta rispetto al passato.
Come mostra il Blue book anche nel 2019 gli investimenti realizzati si sono attestati su un valore pro capite di 46 euro, in aumento del 17% rispetto al 2017 (38,7 euro), con l’obiettivo prioritario del contenimento dei livelli di perdite idriche – ancora enorme, pari al 42% in media dell’acqua immessa in rete – che assorbe circa un quarto degli investimenti programmati (25%); seguono, tra i principali interventi, gli investimenti per il miglioramento della qualità dell’acqua depurata (20%) e quelli per l’adeguamento del sistema fognario (anch’esso in crisi con 4 infrazioni europee aperte e forti difficoltà nella gestione dei fanghi di depurazione) con il 15%.
Restano però ancora grandi differenze tra le macro-aree del Paese e tra le gestioni industriali e quelle “in economia”, dove gli enti locali si occupano direttamente del servizio idrico. Sono infatti 9 milioni le persone residenti in Comuni in cui almeno un servizio tra quelli di acquedotto, fognatura e depurazione, è gestito direttamente dall’ente locale; di questi 5 milioni (59%) sono gli abitanti di Comuni in cui è l’intero servizio idrico a essere gestito direttamente dall’amministrazione locale: analizzando questa tipologia di gestione, gli investimenti medi annui si attestano a 8 €/ab, ovvero neanche un quinto rispetto ai 46 €/ab rilevati per le gestioni industriali.
Al proposito è utile ricordare che l’acqua in Italia è oggi, e da sempre, a tutti gli effetti un bene comune: a cambiare a seconda dei casi è la gestione dei servizi idrici (anche la proprietà della rete idrica italiana è interamente pubblica), che può essere in mano a società 100% pubbliche, miste o quotate. I referendum abrogativi del 2011 hanno tolto i vincoli che prima limitavano gli affidamenti “in house” da parte degli Enti locali, ma i dati mostrano che in un contesto nazionale dove comunque il 97% dei gestori del servizio idrico è a maggioranza pubblica, proprio nelle gestioni in economia la qualità del servizio – insieme alla tutela dell’acqua – crolla in media decisamente. E non si tratta certo di casi isolati: come precisato recentemente da Istat “i gestori che operano in Italia nel campo dei servizi idrici per uso civile nel corso del 2018 sono 2.552; nell’83,0% dei casi si tratta di gestori in economia (2.119), ovvero enti locali”.
La mano pubblica avrebbe adesso l’occasione per essere più generosa, ma anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sottovaluta paurosamente la necessità di investimenti nel comparto idrico.
I fondi assegnati nel Pnrr che riguardano le aziende del servizio idrico sono infatti pari a 3,5 miliardi di euro, ma Utilitalia – la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche – ha avviato un’analisi per individuare i progetti del settore ritenuti dalle sue associate eleggibili a essere inclusi nel Piano, raccogliendo progetti per un valore di 13,86 Mld € (pari a circa 4 volte l’ammontare stanziato nel Pnrr). Un programma di investimenti con un potenziale impatto sull’economia di 11 miliardi di euro e uno occupazionale pari a 133 mila nuovi posti di lavoro.
«Il Pnrr – spiega la presidente di Utilitalia, Michaela Castelli – rappresenta una grande occasione per il comparto idrico, ma le risorse stanziate devono essere accompagnate da alcune riforme. Occorre agire rapidamente sulla governance favorendo la presenza di operatori industriali al Sud: come dimostrano le positive esperienze del Centro-Nord, solo in questo modo è possibile ottenere un incremento degli investimenti e della qualità dei servizi offerti ai cittadini. Nei territori in cui la riforma risalente a più di 25 anni fa non è stata ancora portata a compimento, se necessario, lo Stato può garantire la rapidità e l’efficacia del processo utilizzando i poteri sostitutivi già previsti dalla normativa»
Senza dimenticare che in Italia il 54% dell’uso idrico è destinato all’agricoltura, il 21% all’uso industriale, il 20% all’uso civile e il 5% all’uso energetico. In quest’ottica, il cambiamento climatico rappresenta anche un problema economico e, tra i suoi impatti, vi è inevitabilmente la variazione della disponibilità della risorsa idrica. Se da un lato quindi deve essere garantito il diritto all’accesso all’acqua potabile, al contempo devono anche essere implementate condotte virtuose da parte di tutti gli utilizzatori della risorsa (civili, industriali, agricoli) ai fini della sua tutela, riducendo l’impronta idrica derivante dalle azioni umane.
L. A.