Con gli 80 euro sarebbe stato possibile offrire lavoro a 7-800mila cittadini per 1 anno
Reddito minimo o reddito di cittadinanza? Intervista a Luciano Gallino
«Anche dal punto di vista costituzionale, se vogliamo, il lavoro è più importante del reddito»
[18 Maggio 2015]
In Italia la disoccupazione è al 12,7%, quella giovanile quasi al 43%, ma anche nell’insieme dell’Europa minaccia di rimanere molto alta anche una volta ristabilita la crescita economica potenziale. L’introduzione del reddito minimo può essere una risposta alla disoccupazione endemica? Il dibattito in corso in Italia, che pure ha il merito di aver (finalmente) abbracciato l’idea di una misura universale contro la povertà, sembra prescindere dalla risposta. Il Movimento 5 Stelle è ora particolarmente attivo (e da tempo) sul fronte del reddito minimo, ma le proposte sono molte.
Di fronte a un quadro quanto mai variegato, prima del tifo da stadio – pro o contro reddito minimo – sarebbe opportuno lasciare spazio a una lettura critica. Anche perché con reddito minimo si può intendere un amplissimo panteon di interventi, declinata in Italia nelle proposte dei 5Stelle, dell’Alleanza contro la povertà (con il Reddito di inclusione sociale, il Reis), del Basic Income Network Italia, e anche con la proposta lanciata dall’ex ministro Giovannini e dalla senatrice Pd Maria Cecilia Guerra con il Sostegno di inclusione attiva (Sia).
Di fronte a un mercato tanto ricco, è difficile capire cosa la famosa casalinga di Voghera intenda, quando in ballo c’è il reddito minimo. «Bisogna capirsi – esordisce infatti il sociologo torinese Luciano Gallino, che abbiamo contattato per provare a fare chiarezza sul tema – la dizione internazionale per un reddito che non dipenda dall’occupazione è basic income, reddito base – condizionato o meno. Reddito minimo induce un po’ a confusione, si incrocia con salario minimo e altri concetti. Il salario minimo è la paga oraria minima che un datore di lavoro deve pagare quando occupa un lavoratore, ad esempio. Meglio parlare di reddito di base».
Può essere questa una forma per combattere la disoccupazione e la crescente povertà? Come di fronte a ogni domanda complessa, complessa non può che essere anche la risposta. Dipende. Secondo Gallino, introdurre un reddito di base può essere «utile per certi strati di popolazione particolarmente svantaggiati: per i disoccupati di lunga durata, per chi percepisce pensioni troppo basse, per quanti hanno pesanti vincoli familiari che non permettono di lavorare con continuità. Ma per combattere la disoccupazione è necessario creare lavoro (rivolgendosi a coloro che sono in grado di lavorare), non dare sostegni al reddito. Questa è una visione neoliberale del lavoro, mentre ritengo più opportuno pensare a un datore di lavoro di ultima istanza, la lezione che ci ha lasciato in eredità il New Deal». E che lo stesso Gallino ha ripreso e dettagliato nella forma di un’Agenzia per il lavoro.
Non si tratta dunque di dire no al “reddito minimo”, perché questo potrebbe rappresentare «una salvezza per i molti che, per svariati motivi, età o indisposizione, non ce la fanno. Ma il reddito di cittadinanza sembra dovere molto alla legge Hartz IV, entrata in vigore in Germania nel 2005, ormai dieci anni fa. Ci sono degli articoli nella pdl dei Cinquestelle (es, l’art. 9, l’11, il 12) che sembrano ripresi quasi tal quali dall’esempio tedesco, che è stato pesantemente criticata proprio in Germania per essere una politica di pressione sui lavoratori, che li costringe ad accettare un qualsiasi tipo di lavoro e in cambio di questa ricerca spinta ogni oltre energia, concede loro un’indennità. Sia chiaro, perché è un punto a cui tengo molto: se un individuo non è in grado di lavorare, per vari motivi, un reddito minimo – magari depurato dai difetti derivanti dall’Hartz IV – gli va dato. Ma se uno è in grado di lavorare e vuole lavorare, le cose cambiano. Il reddito di per sé non dà la stima della famiglia, del vicinato, soddisfazione di svolgere un buon lavoro, soddisfazione propria. Anche dal punto di vista costituzionale, se vogliamo, il lavoro è più importante del reddito. E se pure la proposta di un datore di lavoro di ultima istanza è stato in parte criticato per essere una forzatura, ma ci sono distanze abissali».
L’esempio corre a Franklin D. Roosevelt, presidente Usa nel marzo 1933, un politico energico e con un desiderio di infondere positività come alcuni si vantano di fare oggi. Roosvelt però diede impulso concreto all’ottimismo, dando vita a tre agenzie per l’occupazione che in tre mesi diedero lavoro a 4 milioni di persone. «Al 1937 fino a 10-12 milioni di persone erano state occupate per curare i grandi parchi nazionali, rifare le scuole, dare respiro alle infrastrutture. Fu dato lavoro anche ad artisti disoccupati, chiamati non a fare opera di manovalanza, ma per fare il loro mestiere».
Non proprio quanto previsto dalla Hartz IV. Ma in tempi di crisi – anche se pure nel 1933 le cose non fossero proprio uno splendore – il punto interrogativo più grande è sempre uno, i soldi. Eppure l’esecutivo Renzi ha ritagliato ben 9,5 miliardi di euro per finanziare l’operazione “80 euro in busta paga” e, secondo Gallino, per gli effetti conseguiti su economia e lavoro tanto valeva buttarli dalla finestra. «Con 9 miliardi di euro – snocciola Gallino – sarebbe stato possibile offrire lavoro a 7-800mila cittadini, a tempo pieno per 1 anno, ipotizzando un costo di circa 25mila euro a testa. E con un impatto ben diverso».
Al contempo però, a mutare è il contesto internazionale. La disoccupazione tecnologica avanza già, anche in Italia, e il think tank Bruegel ha stimato che nei prossimi decenni i robot potrebbero sostituire tra il 45 e il 60% dei lavoratori europei, schiacciando la classe media. È perché la prospettiva di un buon lavoro per tutti indietreggia, che avanza quella del reddito minimo? «Sembra indietreggiare – risponde deciso Gallino – se si pensa in termini tradizionali, alla sola meccanizzazione come chiave per la produttività, alla produzione delle solite cose. È necessario pensare a politiche industriali concepite in modo radicalmente nuovo, con forme di occupazione che ad alta intensità di lavoro ma al tempo stesso conciliabili con tecnologie avanzate, per non offrire solo lavori da manovale. Si pensi alla cura del territorio, alla lotta contro il dissesto idrogeologico, al recupero delle infrastrutture ormai fatiscenti. Se ne parla negli Usa, in Germania, ma nell’insieme si fa oggettivamente poco per pensare a nuovi tipi di occupazione. Come concludeva Keynes la sua Teoria generale dell’occupazione, purtroppo gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono in realtà spesso schiavi di qualche economista defunto. Accade ancora oggi». E spesso si tratta dell’economista sbagliato.