Terza e quarta generazione, Smr, fusione: lo stato del nucleare spiegato da G. B. Zorzoli

«Quando una tecnologia ha una learning curve che va in direzione opposta a quella tradizionale – ovvero quanto più si installano centrali nucleari tanto più il costo unitario aumenta invece che scendere – è evidente il fallimento della stessa tecnologia»

[7 Dicembre 2022]

Si torna a parlare di nucleare, ma non è una cosa seria. Per cercare di capirne qualcosa abbiamo interpellato Giovanni Battista Zorzoli, storico esperto di energia, docente di Fisica del reattore nucleare già negli anni Sessanta, e poi specializzato in fonti energetiche rinnovabili. 

Professor Zorzoli, cosa c’è dietro questo ritorno di fiamma del nucleare, che è potente almeno a livello mediatico? 

«Ci son due interpretazioni possibili. Probabilmente, come sempre, la verità sta nel mezzo. Da un lato c’è l’uso del nucleare come arma di distrazione di massa, concentrando il dibattito sull’affermazione che, senza il nucleare, le rinnovabili non ce la fanno. Una posizione che non tiene conto di alcuni aspetti. Il primo è che si stanno sviluppando sistemi di accumulo dell’energia a lungo termine, che renderanno le fonti rinnovabili non più intermittenti, ma di fatto programmabili. Il secondo aspetto è che già oggi, grazie alle possibilità offerte dalla digitalizzazione spinta delle reti, le cosiddette smart grid o “reti intellligenti”, si può benissimo fare a meno del nucleare con tecnologie già commerciali. Inoltre, c’è il problema che il nucleare costa sempre di più, invece che costare sempre di meno. Quando una tecnologia ha una learning curve che va in direzione opposta a quella tradizionale – ovvero quanto più si installano centrali nucleari tanto più il costo unitario aumenta invece che scendere – è evidente il fallimento della stessa tecnologia».

E questa è la prima interpretazione… 

«La seconda è che effettivamente c’è una crescita di interesse reale perché la Francia – avendo ottenuto di far entrare il nucleare nella Tassonomia europea (la classificazione degli investimenti ritenuti sostenibili dal punto di vista ambientale, ndr) – ha bisogno ora di spingere il nucleare in altri Paesi, visto che con il solo mercato francese non si sosterrebbe. A questo possiamo aggiungere un ulteriore elemento, e cioè il fatto che oggi, in larga misura, i reattori nucleari vengono realizzati in nazioni non democratiche dove chiaramente non ci sono controlli, non ci sono verifiche, non ci si preoccupa dei conti: quando un governo dice che una cosa si fa, questa viene fatta costi quel che costi. Anche questi Paesi hanno interesse a tenere viva nel mondo l’opzione nucleare».

Si parla di sempre nuove generazioni di reattori, visto che le vecchie scontano diversi problemi. Possiamo fare un po’ di chiarezza?

«È una telenovela iniziata proprio quando, come dicevo prima, si è verificato che la learning curve è opposta a quella tradizionale. Allora si è detto: “Sì, ma questi sono i reattori vecchi, ora ne arriveranno altri che costeranno meno, non richiederanno tempi lunghi per la loro realizzazione”, e così via».

E quali sono questi nuovi reattori?

«La prima ondata è rappresentata dai cosiddetti reattori di terza generazione, sostanzialmente gli Epr francesi, che notoriamente sono stati un disastro. Io cito sempre due casi al di sopra di ogni sospetto: Olkiluoto in Finlandia e Flamanville 3 in Francia. Due situazioni dove non è mai esistita localmente alcuna opposizione al nucleare, e quindi non possiamo chiamare in causa ritardi dovuti a ricorsi o altre difficoltà. Per di più, Flamanville è realizzato in Francia, il paese che ha la maggiore conoscenza tecnologica ed esperienza realizzativa per quanto riguarda i reattori Epr. Inizialmente, Flamanville precedeva un costo dell’impianto di 3,3 miliardi di euro, che sarà di 12,4 miliardi secondo Electricité de France (Edf); ma la Corte de Conti francese ha rifatto il calcolo e ha detto che sarà di 19,1 miliardi di euro. Quasi sei volte tanto. E l’incremento dei costi è andato di pari passo con la dilatazione dei tempi, un altro aspetto del quale tenere conto: la realizzazione dell’impianto prima era prevista in sei anni e attualmente è diventata la bellezza di quindici anni. Okiluoto ha simili problemi. Sono dati, insomma, che indicano il fallimento di questo tentativo con i reattori di terza generazione».

Che quindi non hanno rappresentato quella svolta tanto annunciata per il nucleare. 

«Che continua a mancare. Nel 1973, all’inizio dello sviluppo commerciale di queste tecnologie, la produzione nucleare copriva il 3,3% della domanda elettrica mondiale, una percentuale salita gradualmente raggiungendo il picco 16,5% alla fine del secolo scorso. Dopodiché, ha cominciato una continua discesa: attualmente siamo intorno al 10% della domanda elettrica mondiale. Cioè, l’apporto del nucleare si è quasi dimezzato in circa vent’anni, e anche questo è un indicatore. E poiché quando una cosa non funziona se ne inventa una nuova, dopo i reattori di terza generazione si sono inventati quelli di quarta generazione».

E allora capiamo cosa sono i reattori di quarta generazione.

«Vediamoli sin dall’inizio: le date contano. Il programma è stato varato nel 2002, quindi venti anni fa dal Generation IV International Forum, fondato dal Dipartimento dell’Energia statunitense con la partecipazione di molti altri Paesi, tra i quali anche l’Italia. Un panel di esperti ha analizzato tutte le possibili opzioni, raggiungendo il numero di 130 tecnologie ipotizzate, scegliendo alla fine le sei giudicate più promettenti. Vorrei commentarle una per una, perché molte sono ripescaggi del passato».

Vediamole.

«La prima tecnologia che prendo in considerazione è quella del reattore a sali fusi. Io ho passato un anno, il 1957, a fare ricerca nucleare negli Stati Uniti, e ho fatto una visita a Oak Ridge, nel sud degli Stati Uniti, dove era appena entrato in funzione il prototipo di questo tipo di reattore. Ero appena laureato, ma bastava vedere la complicazione che comportava la gestione di questo prototipo per capire subito che non sarebbe andato da nessuna parte, tanto è vero che in pochi anni è stato abbandonato. Salvo ritornare in ballo oggi.

Un altro ripescaggio è la tecnologia già utilizzata per il famoso reattore Superphénix francese, cioè un reattore raffreddato a sodio che può produrre più materiale fissile di quanto ne consumi e che funziona con neutroni veloci, e non lenti. Superphénix è stato chiuso nel 1999 dopo che la Francia (e anche l’Italia, che era partner) hanno speso un sacco di soldi. Anche in questo caso si tratta quindi di un reattore complicato, costoso, poco efficiente. Ora è stato ripescato, solo che i problemi rimangono quelli di prima.

Una novità recente è invece il reattore veloce al piombo, che presenta però tutti i problemi del Superphénix con un’aggravante: ovvero il fatto che almeno il sodio è un materiale leggero, mentre il piombo è uno dei materiali più pesanti che esistono. E questo crea una serie di problemi aggiuntivi, soprattutto in termini di sicurezza.

Poi c’è un’altra invenzione, che è stata sempre studiata sulla carta e sempre scartata, ovvero il reattore raffreddato ad acqua cosiddetto “supercritico”. In poche parole, un reattore che ha una pressione molto più elevata rispetto a quelli tradizionali, raffreddati ad acqua normale. Anche qui, il problema è che l’alta pressione sollecita tutto il sistema, compreso il contenitore che contiene il reattore, in un modo insolito: proprio per questo l’idea era stata sempre abbandonata.

Quindi c’è il reattore ad altissima temperatura, dove il problema è rappresentato – evidentemente – dalle temperature alte. E, per chiudere, la tecnologia del reattore veloce raffreddato a gas, anche questo un progetto vecchio che è stato ripescato in questa occasione».

Una volta identificate queste sei tecnologie cosa è successo?

«Ricordo che tutta la faccenda è nata nel 2002. Ed era previsto che tutte queste tecnologie dovessero essere progettate in modo che un prototipo entrasse in funzione entro il 2030, cioè tra otto anni. Per un paio di queste tecnologie, però, il prototipo era previsto subito dopo il 2020, cioè l’altroieri, e per altre nel 2025».

E cosa è stato realizzato a fine 2022?

«Non molto. Solo da poco, la Cina ha avviato la costruzione di un prototipo ad alta temperatura, che è il primo passo per la realizzazione del reattore ad altissima temperatura. Questo prototipo deve essere finito, avviato, provato a lungo, per anni, dopodiché forse si potrebbe passare alla costruzione di un prototipo ad altissima temperatura. Quindi andiamo ben al di là del 2030.

La Francia e la Russia, intanto, stanno sviluppando due progetti per altrettanti reattori veloci al sodio. La Francia ovviamente perché aveva il Superphénix e quindi ha ripreso questa tecnologia. Ma, appunto, stanno sviluppando i due progetti, e sono ben lontani dal realizzare i prototipi. La Russia, infine, ha detto che forse entro questo decennio realizzerà un prototipo del famoso reattore veloce raffreddato al piombo. E ricordo che prototipo non significa reattore commerciale… Insomma, questo è lo stato dell’arte».

Facciamo conto che qualcuno di questi progetti vada a buon fine: quale sarebbe il suo contributo agli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica?

«Qui viene in soccorso Gianluca Benamati, un ricercatore che ha lavorato in Enea sul reattore raffreddato a piombo e che poi fino alla scorsa legislatura è stato un parlamentare, vicepresidente della Commissione Industria della Camera. L’onorevole Benamati, che è una persona competente e onesta, circa un paio di anni fa ha dichiarato che è possibile che questi reattori diventino commerciali al 2050. Intanto, il nostro obiettivo è raggiungere la neutralità climatica al 2050 e quindi arriveranno quando sarà troppo tardi. E poi una cosa della quale non si parla mai è che questo ritardo, confermato da un nuclearista esperto come l’onorevole Benamati, si confronta con uno scenario energetico in forte cambiamento».

In quale direzione?

«Proviamo a capire. Già oggi, nel 2022, sulle reti di distribuzione, quelle reti che portano l’energia elettrica a casa nostra, in Italia è collegato circa il 25% della produzione elettrica: una piccola quota la fornisce la cogenerazione, ma la maggior parte viene dal solare e da altre fonti. Realizzando gli obiettivi attuali al 2030, non RePowerEu che ha obiettivi ancora più ambiziosi, grosso modo nel 2030 il 40% della produzione elettrica sarà allacciato alle reti di distribuzione, e non alla rete di trasmissione.

Nel 2050, per farla breve, avremo quindi un sistema elettrico costituito da una serie di produzioni decentrate allacciate per l’80-90% alle reti di distribuzione, e in più un grande numero di comunità energetiche e di autoconsumo collettivo: nel 2050, i condomini saranno tutti così. Le grandi rete che vediamo oggi, i grandi tralicci che portano la rete ad alta tensione, veicoleranno pochissima energia, saranno strutturati come sistemi di soccorso e di interconnessione.

È come se una città fosse fatta di piccoli vicoli, perché ci si cammina solo a piedi o in bicicletta, con le grandi strade che sono fuori dalle città e si limitano a portare con dei tir la merce, che poi verrà distribuita all’interno delle città con altri mezzi. Pensare nel 2050 di mettere delle grandi centrali nucleari da 2-3000 megawatt in una rete così è impossibile, è una sciocchezza.

Le reti sono fondamentali, ma troppo spesso vengono dimenticate: si pensa che siano come l’intendenza di Napoleone, che “seguirà” secondo il motto dell’Imperatore. Mica vero: la faccenda è un po’ diversa e un po’ più complicata. Nel 2050, è questa la sostanza della questione, ci sarà un assetto della rete elettrica che non sarà in grado di sopportare, o di gestire, grosse centrali nucleari.

Forse è per questo che molti dei fautori del nucleare parlano ora di una direzione completamente nuova: quella degli Small modular reactors (Smr), cioè piccoli reattori diffusi sul territorio. 

«Prima osservazione: conosciamo benissimo la difficoltà autorizzativa di piccoli impianti energetici, come quelli fotovoltaici, che proprio perché sono piccoli – il che rappresenta un vantaggio dal punto di vista economico e gestionale – devono essere tanti, e sparsi per il territorio. E quindi hanno bisogno di essere autorizzati da molte comunità locali, con non pochi ostacoli. Figuriamoci il problema che si porrebbe quando qualcuno proponesse: “Qui facciamo un piccolo reattore nucleare…”. Non faccio commenti: chiunque può immaginare cosa potrà succedere. Ma è una questione che va tenuta presente, altrimenti ci raccontiamo delle favole.

E poi c’è la questione temporale. Dei reattori di quarta generazione si è iniziato a parlare nel 2002, mentre di Smr si era iniziato a parlare già negli anni Ottanta del secolo scorso: l’idea era che, siccome i tempi di costruzione dei reattori in cantiere erano molto lunghi, si potessero fare dei reattori più piccoli in fabbrica, dove è più facile la costruzione, e portare questi sistemi già sostanzialmente montati in loco per completare l’assemblaggio. Questo era lo scopo per cui erano stati concepiti i piccoli reattori, non per attaccarli alla nuova “rete intelligente”».

Dagli anni Ottanta a oggi cosa è successo?

«In Italia sono stati studiati due di questi modelli, uno al Politecnico di Milano e uno alla Sapienza di Roma, da due esperti di un certo rilievo: a Milano Carlo Lombardi e a Roma Maurizio Cumo. Sono due persone che conosco benissimo: ho collaborato a lungo con Lombardi, mentre Cumo è stato un mio allievo.

Proprio per l’amicizia che ci lega, il professor Lombardi mi ha sempre tenuto informato degli sviluppi del suo progetto, chiamato Iris. Che, è bene dirlo, non era solo una invenzione universitaria, perché vi partecipavano diverse imprese, italiane e internazionali, ed è andato avanti per anni con finanziamenti importanti. Alla fine, è stato abbandonato perché si è visto che, malgrado l’idea dell’assemblaggio in fabbrica, con i costi non si tornava. E lo stesso è avvenuto per il progetto del professor Cumo a Roma.

Quindi, parliamo di reattori dei quali si è iniziato a parlare negli anni Ottanta del secolo scorso e attualmente sono in esercizio giusto tre prototipi: uno che non produce elettricità, uno in Russia molto discusso perché installato su una piattaforma galleggiante, mentre il terzo è in Cina e se ne sa molto poco. Punto e a capo: mi sembra che la vicenda si commenti da sola».

Per completare il quadro, abbiamo la fusione, sempre evocata come una specie di chimera.

«Io ho sempre sostenuto che il prototipo di reattore a fusione è lontano cinquant’anni, quale che sia il momento in cui se ne parla. Una volta andai alla lavagna per scrivere la mia equazione sui tempi (t) di costruzione, ovvero: t = t0 + 50. Naturalmente creando molto dissenso tra le persone presenti».

Si spieghi meglio. 

«Certo. Mentre sin dall’inizio della mia carriera io ero convinto della fissione, già allora ero radicalmente contrario alla fusione. La mia tesi di laurea, infatti, ha avuto come oggetto il confinamento elettromagnetico delle particelle all’interno del primo acceleratore per studiare le reazioni nucleari, il famoso sincrotrone del quale abbiamo oggi l’esemplare più grosso a Ginevra al Cern. Io mi occupai, con uno stage abbastanza lungo, di quello che poi venne realizzato in Italia a Frascati. Durante questo periodo mi sono reso conto delle difficoltà fisicamente intrinseche, quindi indipendenti dalle tecnologie utilizzate, per mantenere confinate queste particelle, anche per tempi brevi e con densità modesta come richiesto dagli esperimenti negli acceleratori.

L’idea di particelle con un flusso cento volte superiore a quello degli acceleratori e con una energia molto alta, e che devono stare lì per settemila ore all’anno per produrre energia, mi è sempre sembrata di difficilissima realizzazione. Tanto è vero che ora si parla di realizzare intorno al 2050 un primo impianto dimostrativo. Dopodiché – se funziona – si dovrà  lavorare per  realizzare un reattore a fusione vero e proprio. L’esperimento Iter, al quale lavora tutto il mondo, è in continuo ritardo e quando funzionerà dovrà dimostrare una cosa elementare: che la fusione si autosostiene, cioè che produce più energia di quanta ne consuma.

Concludo facendo un semplice confronto. La notizia della scoperta della fissione nucleare risale all’inverno del 1939. Il 2 dicembre del 1942 Enrico Fermi mise in funzione la prima pila atomica, dimostrando la fattibilità della fissione nucleare come fonte di energia per usi militari e per la produzione energetica. Ciò è avvenuto in tre anni, quindi. La fusione nucleare è nata alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, e quindi parliamo di quasi cento anni per arrivare – forse – a dimostrare la stessa cosa, cioè che la fusione si autosostiene. Servono altri commenti?».

a cura di Greenpeace Italia