Un essere umano su 200 vive in schiavitù. E lavora anche per noi (VIDEO)
Global Policy Forum: a rischio i lavoratori migranti delle piantagioni in Italia e nell’edilizia in Qatar
[4 Marzo 2019]
La schiavitù non è una cosa del passato: è un’industria fiorente: oltre 40 milioni di schiavi nel mondo producono 150 miliardi di dollari all’anno per i loro padroni e, come dice Ludovic Dupin di Novethic, «Questa economia non è lontana da noi, è presente in numerosi settori dei quali ogni giorno consumiamo i prodotti». Secondo l’International labour organization (Ilo) dell’Onu, le persone ridotte in schiavitù nel mondo sono 40,3 milioni, non c’erano mai stati così tanti schiavi: si tratta di più di un essere umano su 200, tra il XV e il XIX secolo la tratta negriera, aveva prodotto 13 milioni di schiavi.
Nel 2017 il rapporto “Global Estimates of Modern Slavery” dell’Ilo aveva rivelato che tra gli schiavi dimenticati del mondo 25 milioni sono lavoratori (anche lavoratrici sessuali) e 15,4 milioni sono vittime di matrimoni forzati, il 71% delle quali spose bambine. Tra il 30 e il 40% delle bambine che vengono fatte sposare forzatamente provengono da zone colpite dai cambiamenti climatici, I 25 milioni di lavoratori schiavi tengono in piedi pezzi di industrie e servizi che hanno a che fare con i nostri consumi quotidiani e anche le nostre emissioni di CO2 svolgono un ruolo in questa tragedia umana di fronte alla quale voltiamo lo sguardo e allontaniamo le telecamere. Dupin spiega ancora: «Di fronte al moltiplicarsi di episodi di siccità, di inondazioni, di incendi, delle famiglie africane, sempre più spesso diventate incapaci di nutrire i loro ultimi nati, le maritano il più presto possibile. Non ridurre le nostre emissioni vuol dire anche favorire questa miseria. Non si tratta di accollarsi il peso delle disgrazie del nostro pianeta, ma solo di prendere coscienza che attraverso i nostri consumi, i nostri trasporti, le nostre emissioni, decidiamo anche un po’ il destino di 40 milioni di schiavi».
Safe Haven Network definisce la tratta di persone «La maggiore attività criminale internazionale, superiore al narcotraffico e alla vendita illegale di armi» e aggiunge che «Schiavitù e discriminazione razziale sono due facce della stessa medaglia». Se la maggioranza dei casi di schiavitù si registra nel sud-est asiatico e in Africa, nei Paesi sviluppati (Italia compresa) ci sono 1,5 milioni di schiavi. Come ha scritto The Guardian, «Questi schiavi producono i vestiti che indossiamo, raccolgono la frutta che mangiamo, pescano i gamberi dei nostri ristoranti, estraggono i materiali dei nostri smartphones e delle nostre auto elettriche, costruiscono gli stadi della coppa del mondo di calcio in Qatar». E nei Paesi sviluppati il sovranismo nazionalista si nutre di razzismo e suprematismo bianco, sia nell’America di Donald Trump che nell’Europa di Orban e Salvini, e giustifica così le terribili condizioni di lavoro in cui vivono i lavoratori agricoli africani nel sud Italia e i latinos clandestini negli Usa.
Shannon Scribner, vicedirettrice humanitarian programs and Policy di Oxfam America, sottolinea su IPS che «Mentre i pericoli naturali come gli uragani, esacerbati dai cambiamenti climatici, stanno causando la migrazione delle persone, sono i conflitti, le violenze e le persecuzioni che attualmente hanno costretto più di 68,5 milioni di persone a fuggire dalle loro case, esponendole a rischi maggiori e a un aumento della vulnerabilità, in particolare donne e bambini. Le persone vulnerabili che si spostano affrontano enormi rischi e incertezze per cercare sicurezza e opportunità per sé stesse e le loro famiglie. Purtroppo, in molti casi vengono sfruttate e i loro diritti vengono ignorati, sono costrette a lavorare in condizioni terribili per poco denaro o in alcuni casi niente». E’ per questo, e non per un capriccio politico persecutorio, che l’Onu ha denunciato le politiche anti-migratorie dell’Italia che acuiscono schiavitù e disperazione nei lager libici e nei campi coltivati. Nel 2017 la rotta migratoria del Mediterraneo centrale, quella che registra il maggior numero di morti, è stata percorsa da 120.000 persone, mentre almeno 2,900 migranti sono morti e dispersi. La Scribner ricorda che «La maggior parte di loro ha viaggiato su imbarcazioni di contrabbandieri in partenza dalla Libia, dalla Tunisia o dall’Egitto, rischiando la vita alla ricerca di sicurezza e opportunità in Italia e oltre».
Migliaia di centroamericani stanno cercando di attraversare il confine con gli Usa, sono spesso donne e bambini in fuga dalla violenza domestica e gente in fuga delle bande criminali, dalla corruzione e dall’impunità dei regimi autritari, dalla siccità, dalle alluvioni e dagli uragani e dalla miseria nei loro Paesi d’origine. La Scribner descrive situazioni terribili: «Vediamo donne che subiscono il peso della violenza e della povertà, con alti livelli di violenza sessuale e di genere e livelli allarmanti di femminicidio. Non è raro che una ragazza e la sua famiglia vengano prese di mira e persino uccise dalle bande se lei si rifiuta di diventare la schiava sessuale di una gang. E una volta al confine, i bambini muoiono a causa del difficile viaggio che stanno intraprendendo e come risultato dell’assenza di assistenza medica di emergenza».
L’australiana Sharan Burrow, segretaria generale dell’International Trade Union Confederation (Ituc) sa bene che «Per milioni di persone, la diseguaglianza e la schiavitù moderna vanno di pari passo. La schiavitù moderna è dappertutto, dalla kafala in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti (un sistema nel quale i lavoratori migranti hanno un patrocinatore locale, responsabile del loro visto e del loro stato legale, ndr), passando per le haciendas del Paraguay e la pesca in Thailandia e nelle Filippine, fino all’agricoltura in Italia. Le catene di approvvigionamento di vestiti, cibo e servizi consumati a livello globale sono strutturate per il lavoro forzato, con i lavoratori migranti e le popolazioni indigene che sono particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Produrre i cambiamenti legali e garantire la libertà di associazione è un E’ una questione di volontà politica, che ci sarà solo con l’esposizione di questo scandalo e con le campagne di lavoratori, consumatori e sindacati. I governi devono fare pressioni sulle corporation, la gente lo reclama».
Dima Dabbous, direttrice dell’ufficio Medio Oriente e Africa del Nord di Equality Now, ha detto all’IPS che nella regione ci sono 1,6 milioni di donne migranti che vivono sotto la minaccia della kafala. nelle monarchie assolute petrolifere del Golfo, in Giordania e in Libano, «Queste lavoratrici sono particolarmente vulnerabili perché lavorano in ambito domestico e sono soggette, come donne delle pulizie, domestiche o bambinaie, a non poter rinunciare al loro impiego o cambiarlo senza il consenso del loro patrocinatore, oppure non possono protestare per le condizioni di lavoro o per le molestie sessuali perché verrebbero espulse. Questo squilibrio nei rapporti di potere ha creato un sistema grazie al quale i datori di lavoro sono in grado di sfruttare le lavoratrici domestiche immigrate con un rischio minimo di subire conseguenze».
In queste condizioni le restrizioni di movimento, salari non pagati o irrisori e aggressioni fisiche e sessuali sono moneta corrente. Diverse donne migranti sono state assassinate dai loro “datori di lavoro”. La Dabbous dice che qualcosa comincia a muoversi: «In Libano le pressioni di ONG locali e internazionali hanno portato ad alcune migliorie nel tipo di contratto che regola il lavoro delle lavoratrici domestiche migranti, come l’obbligo del riposo settimanale, il pagamento del salario su base regolare e che le donne che subiscono abusi possono rivolgersi alle autorità. Tuttavia, nessuno di questi “miglioramenti” ha fatto una qualche differenza perché il nuovo contratto non è stato tradotto nelle lingue parlate dalle collaboratrici domestiche e non è stato applicato dal governo libanese. Le donne hanno continuato vedersi i passaporti confiscati dai loro datori di lavoro, viene loro ancora negato un giorno di riposo a settimana e hanno scarse possibilità di lamentarsi o denunciare abusi. L’Ilo e altre ONG internazionali devono continuare a denunciare il sistema della kafala che lega queste donne migranti come schiave ai loro datori di lavoro. La comunità internazionale dovrebbe anche sostenere le ONG locali che lavorano per abolire o sostituire il sistema della kafala. Queste ONG restano molto poche e sotto-finanziate. Il problema è aggravato dagli attuali atteggiamenti razzisti verso le lavoratrici domestiche migranti nella regione del Medio Oriente, e anche questo deve essere affrontato».
Anche se è proibita in tutto il mondo, sia nel ricco Nord che nel povero Sud la schiavitù ha assunto nuove forme, come la tratta e il traffico di persone e il reclutamento di bambini soldato, il matrimonio precoce, la servitù domestica. Karolin Seitz, programme officer on corporate accountability, business and human rights del Global Policy Forum, ha detto all’IPS che «Sono a rischio soprattutto i lavoratori migranti delle piantagioni di aranci in Italia o nell’edilizia in Qatar. L’esperienza dimostra che gli impegni volontari delle multinazionali non sono sufficienti». Infatti, Paesi come la Gran Bretagna con l’Anti-Slavery Act, l’Australia con il Modern Slavery Act o la Francia con la loi de vigilance sono arrivai alla conclusione che funzionano solo leggi vincolanti. Invece, altri Paesi credono ancora negli impegni volontari. Come la Germania che nel suo Piano di azione nazionale per l’implementazione dei Guiding Principles on Business and Human Rights dell’Onu non si prende nessuna responsabilità, cedendo chiaramente alle grandi pressioni delle imprese. La Seitz fa notare che «Le leggi, anche se presentano carenze e difficoltà di attuazione, obbligano le grandi compagnie a presentare dichiarazioni nelle quali descrivono il rischio di schiavitù nelle loro catene di approvvigionamento e le azioni intraprese per evitarlo».
Un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla salute dei rifugiati e migranti in Europa ha concluso che i lavoratori migranti hanno più probabilità di lavorare troppe ore in attività rischiose e senza misure di sicurezza adeguate. La Seitz evidenzia che «Questi effetti della tratta o del lavoro forzato non vengono riconosciuti dalle autorità e non hanno accesso alla giustizia, Raramente gli individui colpiti possono far rispettare le loro richieste di risarcimento e indennizzo. Per eliminare i vantaggi competitivi che forniscono la schiavitù moderna, la tratta delle persone e l’inquinamento ambientale, i necessari meccanismi per i diritti umani devono andare ben oltre i limiti delle frontiere». Se vogliono davvero chiudere il gap e approvare robusti standard comuni a livello mondiale, i governi dovrebbero sostenere l’attuale processo all’United Nations human rights council per istituire in Trattato vincolante che regolamenti le multinazionali e le altre imprese per quanto riguarda i diritti umani. Il documento dovrebbe obbligare gli Stati a istituire una due diligence obbligatoria dei diritti umani per le proprie aziende, a ritenere le società legalmente responsabili di violazione della due diligence in caso di violazioni dei diritti umani e rimuovere gli ostacoli all’accesso alla giustizia per le vittime di violazioni dei diritti umani da parte delle multinazionali».
Ma la Burrow fa notare che «Nel mondo il lavoro è sempre più insicuro e predominano i contratti a tempo determinato e aumentano il lavoro nero e la schiavitù moderna. La disuguaglianza di reddito e tra coloro che non possono accedere a un lavoro dignitoso, spinge la gente a lavorare in condizioni di sfruttamento, e l’ineguaglianza della relazione tra datore di lavoro e lavoratore impedisce ai lavoratori di essere in grado di esercitare i propri diritti. Quando i salari sono bassi e non c’è lavoro dignitoso, quando on ci sono sindacati che rappresentano i lavoratori e difendono i loro diritti, si creano le condizioni che portano alla schiavitù moderna. La due diligence e la trasparenza sono la chiave per porre fine alla schiavitù moderna nella in tutta la catena produttiva». Se le corporation si assumono le loro responsabilità con la due diligence e, conseguentemente, rendono trasparente la loro filiera di rifornimenti, è possibile creare procedimenti per fare ricorsi che possano facilitare una soluzione a violazioni del lavoro, come il lavoro forzato a una paga al di sotto del salario minimo. Una legge sulla due diligence con un nuovo mandato sta per essere approvata in Francia e altri Paesi come la Germania e l’Olanda si preparano a seguire la stessa strada».
Alla fine del 2018 è stato approvato dall’Onu il Global Compact for Migration, al quale l’Italia non ha aderito, un patto non vincolante che prevede il riconoscimento della necessità di una partecipazione significativa dei rifugiati e delle comunità di accoglienza nei processi decisionali e l’impegno a sostenere i diritti umani di tutti i migranti indipendentemente dallo status.
La Scribner conclude: «Sfortunatamente, invece di aiutare ad affrontare e risolvere la crisi degli sfollati con politiche premurose e umane e un genuino senso di responsabilità condivisa, troppi leader usano tattiche intimidatorie e raffigurano migranti e rifugiati come criminali violenti e terroristi, quando sono in realtà fuggono dalla violenza e avrebbero anche molto da offrire alle loro nuove comunità. Questi leader in tutto il mondo stanno facendo questo con un palese disprezzo per il diritto umanitario internazionale, i diritti umani e le norme globali che hanno lo scopo di proteggere i più vulnerabili tra noi. Nel complesso, la migrazione di massa in atto a livello globale presenta opportunità ma anche enormi rischi per coloro che non sono protetti lungo il percorso o quando arrivano. Molti pensano che la schiavitù sia una cosa del passato, ma esiste ancora oggi, interessando milioni di esseri umani in tutto il mondo, mentre le persone prendono decisioni disperate per una vita migliore. Per avere un mondo più sicuro e giusto per tutti, ci vogliono più protezioni e di una maggiore implementazione dei sistemi già in atto».