Anbi: «Il riuso è una componente chiave del Green new deal». Ma i fanghi restano da gestire
Un Piano nazionale per l’acqua e il riutilizzo dei reflui, contro la crisi climatica
Utilitalia: andrà messa in campo «una strategia di intervento per lo sviluppo dell’economia circolare basata su quattro pilastri»
[22 Luglio 2020]
L’Italia è uno dei Paesi più esposti al mondo alla crisi climatica in corso – il surriscaldamento delle temperature corre a velocità praticamente doppia rispetto alla media globale – e al contempo si trova esposto a un crescente rischio di desertificazione: nonostante solo il 10% degli italiani si dichiari preoccupato dal problema, questo riguarda già il 20% del territorio nazionale (arrivando a picchi del 70% in Sicilia). È dunque indispensabile imparare a usare meglio – e a ri-usare – l’acqua che abbiamo a disposizione, prima che sia tardi.
Ad oggi c’è molto da migliorare: secondo gli ultimi dati (2018) forniti da Istat, ad esempio, nelle reti di distribuzione dell’acqua potabile dei 109 comuni capoluogo sono stati immessi in rete 2,5 miliardi di metri cubi di acqua, ma il 37,3% è andato disperso. Al contempo, in Italia si trattano e si riusano ogni anno oltre 200 milioni di metri cubi di acque reflue, ancora troppo poche.
Un tema su cui c’è convergenza tra Utilitalia – la Federazione delle imprese di acqua ambiente e energia – e Anbi, l’associazione che riunisce i Consorzi di bonifica, a partire dalla necessità di rendere sempre più sostenibile la gestione della risorsa idrica: «La commissione Europea – spiega Adriano Battilani dell’Anbi – ha sempre ritenuto il riuso delle acque una pratica importante per il raggiungimento degli obiettivi ambientali ed economici nel medio e lungo periodo. Ora il riuso è una componente chiave del Green new deal, del Farm to fork e del nuovo ciclo di programmazione della Direttiva quadro acque. Inevitabilmente dovrà essere considerato anche a livello dei Piani strategici nazionali, nel quadro della nuova Politica agricola comunitaria. È necessario che ministeri e regioni si attivino al più presto per strutturare e avviare la predisposizione dei piani di gestione dei rischi connessi al riutilizzo dell’acqua».
Per Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, in un Piano idrico nazionale si dovrebbe cominciare «a puntare al recupero del gap del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, passando poi al rifinanziamento del piano strategico per le grandi infrastrutture idriche; e a un lavoro per una gestione integrata dei fanghi di depurazione. In una seconda fase bisognerà prevedere un ampliamento e miglioramento delle reti acquedottistiche con l’obiettivo primario di contenere le perdite di rete, per segnare il passaggio da un approccio reattivo ad uno preventivo sui controlli sulla qualità dell’acqua distribuita».
E Utilitalia delinea in questo ambito i punti essenziali che dovranno esser toccati. Andrà messa in campo «una strategia di intervento per lo sviluppo dell’economia circolare basata su quattro pilastri: efficienza energetica nelle attività e nelle infrastrutture del servizio idrico integrato; riduzione dell’utilizzo della plastica attraverso la promozione del consumo di acqua potabile; recupero di energia – elettrica e termica – e di materie prime grazie a impianti o a specifici trattamenti integrati nelle infrastrutture idriche; riuso dell’acqua trattata, per esempio per l’agricoltura e l’industria».
E qui torna in evidenza la necessità di gestire anche i fanghi inevitabilmente prodotti durante la depurazione delle acque: se infatti processi di depurazione da un lato producono acqua da riusare, dall’altro producono fanghi di depurazione, in quantità proporzionale al grado di affinamento della depurazione. Ogni abitante, mediamente, produce ogni anno circa 18 kg di fanghi di depurazione, che occorre sapere dove e come poter gestire.