I governi che mettono la CCS al centro dei loro piani nazionali di decarbonizzazione rischiano di trovarsi in una situazione di svantaggio competitivo

La dipendenza dalla cattura e stoccaggio del carbonio è «altamente dannosa dal punto di vista economico»

Università di Oxford: puntare sul CCS è economicamente da analfabeti

[6 Dicembre 2023]

Lo studio “Assessing the relative costs of high-CCS and low-CCS pathways to 1.5 degrees”, pubblicato da Andrea Bacilieri, Richard Black e Rupert Way dell’Oxford Smith School of Enterprise and the Environment (SSEE) dell’università di Oxford demolisce la cattura e stoccaggio del carbonio, una delle presunte scorciatoie tecnologiche tanto care alle industrie più inquinanti – e anche al governo Meloni –  per non abbandonare i combustibili fossili.

Infatti, i ricercatori scrivono che «Una forte dipendenza dal Carbon Capture and Storage (CCS) per raggiungere gli obiettivi netti zero intorno al 2050 sarebbe altamente dannosa dal punto di vista economico, costerebbe almeno 30 trilioni di dollari in più rispetto a un percorso basato principalmente su energie rinnovabili, efficienza energetica ed elettrificazione».

Eppure, il CCS sta avendo – insieme al rilancio del costosissimo, lento e pericoloso nucleare – sta avendo un posto di rilievo nelle discussioni della COP28 Unfccc in corso a Dubai, dove i principali paesi produttori di petrolio e gas sono pronti ad annunciare obiettivi condivisi per realizzare impianti di CCS, .

Ma la nuova analisi evidenzia che «L’introduzione della CCS in tutta l’economia, piuttosto che solo in una manciata di settori essenziali, ha poco senso dal punto di vista finanziario».

Lo studio fornisce stime dei costi per due diverse serie di percorsi verso il net zero nel 2050: uno che utilizza la CCS per mitigare circa un decimo delle emissioni odierne, il secondo che la utilizza per mitigare circa la metà delle emissioni odierne e, sulla base degli ultimi dati sui costi tecnologici, conclude che «Il percorso high-CCS costerebbe circa un trilione di dollari all’anno in più rispetto al percorso low-CCS – un costo aggiuntivo totale di circa 30 trilioni di dollari entro il 2050». E i ricercatori ritengono che questo sia quasi certamente una sottostima della reale differenza.

Way sottolinea che «Contare sulla diffusione massiccia  della CCS per facilitare un uso elevato e continuo di combustibili fossili costerebbe alla società circa un trilione di dollari in più ogni anno: sarebbe altamente dannoso dal punto di vista economico».

Anche se Way dice che «Un certo livello di CCS sarà certamente necessario per raggiungere il net zero», aggiunge che «l’analisi dimostra che questo dovrebbe essere riservato ai casi d’uso essenziali in settori difficili da abbattere. Questo perché le energie rinnovabili sono già più economiche dei combustibili fossili in molte applicazioni, e si prevede che diventeranno ancora più economiche in futuro, aumentando ulteriormente il loro vantaggio in termini di costi».

Il rapporto fornisce anche il primo riepilogo completo e disponibile al pubblico delle stime del costo dell’energia fossile con la CCS negli ultimi 40 anni e non trova prove di un calo dei costi. Way evidenzia che «Qualsiasi speranza che il costo della CCS diminuisca in modo simile a quello delle tecnologie rinnovabili come l’energia solare e le batterie appare fuori luogo. I nostri risultati indicano una mancanza di apprendimento tecnologico in qualsiasi parte del processo, dalla cattura della CO2 all’interramento, anche se tutti gli elementi della filiera sono in uso da decenni».

Secondo gli autori dello studio, intraprendere un percorso a low-CCS verso l’azzeramento delle emissioni è anche più vantaggioso dal punto di vista sociale ed ecologico. Bacilieri, dell’Institute for New Economic Thinking dell’università di Oxford spiega: «Abbiamo scoperto che i requisiti di utilizzo del suolo per le colture energetiche sono inferiori in media di 1,3 milioni di chilometri quadrati nei percorsi low- CCS, un’area equivalente a circa la metà delle dimensioni dell’Arabia Saudita. I cambiamenti nell’uso del territorio richiesti dalla forte dipendenza dalla biomassa – spesso abbinata alla CCS – probabilmente minaccerebbero le risorse essenziali, come cibo e acqua, incidendo sulla loro disponibilità e sui prezzi. Potrebbe anche comportare ulteriori rischi per i diritti umani e mettere a repentaglio la biodiversità e i servizi ecosistemici, deteriorando la resilienza dei nostri ecosistemi».

Inoltre, lo studio rileva che la CCS non è attualmente in fase di sviluppo, nemmeno alla scala prevista nei percorsi a low-CCS: «Il volume di CO2 catturato e stoccato in tutto il mondo è circa raddoppiato negli ultimi dieci anni fino a raggiungere 49 MtCO2/anno, ma seguire il percorso low-CCS comporterebbe un aumento di circa 13 volte entro il 2030: seguire il percorso ad high-CCS comporterebbe un aumento di circa 13 volte entro il 2030, comportando un aumento di 85 volte. Nel frattempo, il 70% degli attuali progetti CCS utilizza la CO2 catturata per un migliore recupero del petrolio anziché immagazzinarla, un flusso di entrate destinato a ridursi con il calo della domanda globale di petrolio».

Black, che è anche ricercatore onorario al Grantham Institute dell’Imperial College di Londra, conclude: «I governi devono prendere sul serio la CCS. E questo significa tre cose: aumentare gli investimenti, attenersi ai casi d’uso essenziali ed essere molto chiari sul fatto che la CCS non può essere una soluzione globale. La CCS sarà probabilmente necessaria per alcune industrie e forse per le emissioni negative, ma vederla come un modo per compensare il continuo consumo di combustibili fossili è economicamente da analfabeti. Centrare le strategie di decarbonizzazione nazionali e globali su un rapido aumento delle energie rinnovabili e una corrispondente riduzione dell’uso di combustibili fossili ci permetterà di stare meglio e sappiamo che è possibile farlo».