A che punto è la green economy nel mondo
Ronchi: «Regge in Europa e c’è in particolare una spinta interessante da parte della Francia, sta diventando un elemento di forza per la Cina e, nonostante la posizione del presidente Trump, anche gli Stati Uniti puntano ancora sul green»
[8 Novembre 2017]
Il tema della seconda giornata degli Stati generali della green economy “Europa, Cina, Usa: il futuro della green economy nei nuovi equilibri mondiali”, in corso alla fiera Ecomondo di Rimini, in rassegna gli scenari dell’economia verde nel mondo, e in particolare la possibilità di centrare gli obiettivi dell’Accordo sul cima di Parigi: contenere il riscaldamento globale “ben al di sotto” dei +2°C rispetto all’era pre-industriale. Dopo aver incentrato ieri il focus sul contesto italiano, che gode di singole eccellenze imprenditoriali e territoriali nella green economy ma sconta la mancanza di una politica industriale in grado di fare sistema, è arrivato dunque il momento di allargare la prospettiva.
«La green economy – ha detto Edo Ronchi, del Consiglio nazionale della green economy (nella foto) – sta andando avanti; regge in Europa e c’è in particolare una spinta interessante da parte della Francia, sta diventando un elemento di forza per la Cina e, nonostante la posizione del presidente Trump, anche gli Stati Uniti puntano ancora sul green». Complessivamente, il Green economy progress – l’indicatore del programma Onu per l’ambiente (Unep) che valuta i progressi degli Stati in materia di economia verde – vede il 79% dei Paesi in avanzamento e il 21% in stallo, tra cui la Cina; nel gigante asiatico si registra però una recente svolta “green” da parte del governo cinese, segnalata anche da indicatori quali la crescita del fatturato di beni e servizi ambientali, l’aumento degli stock forestali, la riduzione del consumo di pesticidi e fertilizzanti e l’aumento degli edifici realizzati con criteri green, gli enormi investimenti in rinnovabili e la grande emissione di green bond.
Guardando in particolare ai trend legati al cambiamento climatico, da Ecomondo si osserva invece che nel 2016 per il terzo anno consecutivo le emissioni mondiali e la produzione di gas serra non sono aumentate, mentre la capacità di generazione elettrica da rinnovabili è raddoppiata nei primi 15 anni del secolo; nonostante ciò, il ritmo del progresso sul fronte climatico è ancora drammaticamente lento.
Come ha chiarito l’Unep nei giorni scorsi, gli attuali impegni messi nero su bianco dagli Stati bastano a malapena per coprire 1/3 degli sforzi necessari a raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. L’Europa ad esempio ha conseguito con anticipo gli obiettivi del pacchetto di misure per il clima al 2020, ma nel nuovo pacchetto al 2030 ha identificato target (27% di rinnovabili sul consumo finale lordo e 30% di riduzione del consumo tendenziale di energia) che difficilmente consentiranno di centrare l’obiettivo di riduzione dei gas serra del 40%: perciò – rimarcano dagli Stati generali della green economy – l’attuazione dell’Accordo di Parigi richiederà un miglioramento dei target europei al 2030, progresso richiesto ieri anche da alcune delle principali utility elettriche del Vecchio continente (Enel compresa). Anche in quello che oggi è il principale Paese emettitore di gas serra con il 29% delle emissioni globali di CO2, la Cina, il programma di misure per l’Accordo di Parigi presentato dalla Cina risulta insufficiente e prevede di continuare ad aumentare le emissioni fino al 2030 (nonostante nei fatti non crescano dal 2014). Spostando l’analisi sull’altra sponda dell’oceano Pacifico, particolarmente frammentato risulta il quadro statunitense: per volontà del presidente Trump gli Usa sono l’unico stato al mondo a non aver ratificato l’Accordo di Parigi, il Paese continua a essere leader mondiale nella produzione di biocombustibili e nelle tecnologie per l’efficienza energetica, le emissioni di green bond nel 2016 sono state 80 volte superiori a quelle del 2012 (raggiungendo la cifra di 38,4 miliardi di dollari) e, soprattutto, circa il 40% delle emissioni di gas serra degli Usa proviene da Stati che hanno ufficialmente dichiarato che manterranno il loro impegno di riduzione di gas serra in attuazione dell’Accordo di Parigi. Certo è che l’incertezza provocata dal governo federale non contribuisce ad accelerare la transizione verso la green economy. Offrendo un motivo in più all’Europa, nell’interesse di tutti e in primis in quello dei propri cittadini, a non abdicare quel ruolo guida nella rivoluzione verde che solo fino a pochi anni fa era orgogliosamente rivendicato, per poi lasciarlo scivolare nell’oblio immolato all’ideologia dell’austerità a tutti i costi.
Senza dimenticare che quanto vale per il clima, conta – forse ancor di più – anche per una gestione sostenibile delle risorse naturali: la loro estrazione a livello globale è passata da 22 a 70 miliardi di tonnellate/anno dal 1970 al 2010, alimentando enormi disuguaglianze. Se tutti i 7,4 miliardi di esseri umani vivessero secondo i canoni occidentali, l’estrazione sarebbe 2,5 volte quella attuale; un fatto col quale l’Europa (e l’Italia, settima potenza industriale al mondo e seconda in Ue) dovrà prima o poi decidersi a fare i conti, importando il sestuplo delle risorse naturali che riesce ad esportare, pagando un conto da 760 miliardi di euro l’anno.